I vetri sono completamente opachi, impastati di polvere. La “parigina”, il trenino di servizio, procede a 1.200 metri di profondità, verso il fronte di scavo dove si buca la roccia. Un viaggio di oltre mezz’ora tra gli scossoni, coi tappi nelle orecchie per il rumore. Un tragitto di più di dieci chilometri apparentemente identici, accompagnati in parallelo da un enorme tubo che conduce aria pulita, un nastro trasportatore e barre di neon per l’illuminazione.
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Fuori, dopo il turno, spiega un locomotorista, l’aria che respiri e la forza della luce naturale sono così diverse che non ti abitui mai. Fuori, magari è inverno e ci sono quindici gradi sottozero, mentre la temperatura in galleria è sopra i venti gradi. Al rumore e agli scossoni ci si abitua, perché sulla parigina c’è chi dorme e chi gioca a scacchi online sul telefono. Fuori c’è l’Alto Adige ma ce lo si dimentica: Gianluca, fresista calabrese, dice che è qui dal 2018 ma «dentro, da vent’anni». «Dentro» significa in galleria, come se ne esistesse una sola, come se sottoterra la geografia non avesse senso.
A percorrere questo tratto in futuro saranno treni veri e propri. Il più grande cantiere d’Europa è al lavoro per costruire, attraverso le Alpi, il più lungo tunnel ferroviario del mondo. I 64 chilometri della Galleria di base del Brennero collegheranno Innsbruck e Fortezza (Bolzano), segmento cruciale del corridoio Helsinki-La Valletta. Treni passeggeri ma soprattutto treni merci: nelle intenzioni si abbatteranno i costi rispetto al trasporto su gomma, e questo alleggerirà l’autostrada del Brennero. Treni ad alta velocità e ad alta capacità. Di proteste ce ne sono state, ma niente di paragonabile a quelle No Tav per la Torino-Lione.
I cantieri in realtà sono più d’uno, divisi tra il lato italiano e l’austriaco. Sul primo, i lavori procedono spediti: tutti i giorni, ventiquattr’ore al giorno, con più di mille operai. Sul lato austriaco invece ci sono grossi rallentamenti. Comunque a oggi l’opera, avviata nel 2007, verrà conclusa secondo i programmi nel 2032. Un quarto di secolo, «per qualcosa che è previsto duri duecento anni», dice Antonio Voza, l’ingegnere responsabile del lotto più grande della Galleria per conto di Bbt (Brenner Basistunnel). Ovvero la committenza che appalta i lavori finanziati, con circa 9 miliardi di euro, da Italia, Austria e Unione europea.
Il consorzio di imprese che costruisce la galleria ha vinto la gara con un prezzo ribassato del 30 per cento. Starci dentro senza perdere in qualità del lavoro e senza gravare sui lavoratori, sembra una sfida più difficile di quella posta qui dall’uomo alla natura. Quella che inorgoglisce Davide, 34 anni, ingegnere umbro: «Il tunnel dimostra cosa si può fare se ci si mette assieme». Si dice onorato dell’opportunità, in generale ama il suo lavoro: «Prendo in giro gli amici ingegneri di grandi case automobilistiche: facile fare macchine da 300 chilometri orari, provate con macchine da 50 millimetri al minuto». Che l’opera abbia un altissimo livello tecnico emerge anche in un altro cantiere, dove quattro enormi pozzi e quasi quattrocento persone sono al lavoro per realizzare il tratto di tunnel sotto il fiume Isarco. Un’operazione che congela il terreno con iniezioni d’azoto e forma una specie di guscio impermeabile: all’interno scorre il fiume mentre al di sotto si scava senza prendersi una goccia d’acqua.
La corsa della parigina finisce su uno dei fronti di scavo meccanizzato, dove opera la macchina estremamente sofisticata che è la fresa. Sul lato italiano ce ne sono tre, prodotte in Germania e arrivate via mare. Come una polena sulla prua, la fresa è nel punto più avanzato degli scavi e ha nome di donna. La più piccola si chiama Serena e avanza in un cunicolo esplorativo, per stabilire le caratteristiche del terreno e preparare agli scavi delle gallerie delle due frese grandi, Flavia e Virginia. Poco avanti a noi è appunto in azione Flavia. In superficie, in corrispondenza di questo punto, c’è la natura rigogliosa della val di Vizze. Qui invece, oltre che da rumore e vibrazioni, si viene aggrediti da un’aria pesante.
«Chi è dentro respira tonnellate di silice», secondo Marco Nardini, sindacalista Cgil con un passato da operaio in galleria: «L’opera è ecologica, non si vede niente sul territorio. Di sotto, però, l’aria pulita trasportata dal tubo soffia al fronte, dove c’è polvere, e torna indietro nel sistema di gallerie. In generale le condizioni di questi cantieri sono difficili ma non c’è stato neanche un morto sul lavoro, e purtroppo bisogna festeggiare una cosa del genere».
I turni qui sono lunghissimi. Un operaio ci spiega che deve mangiare il panino sopra al bidone del grasso per i meccanismi della fresa: la pausa dura circa venti minuti e non dà tempo di uscire e sedersi a mensa. Nardini punta il dito sull’accordo separato che Cisl e Uil firmarono nel 2019, dopo un referendum dei lavoratori: «Da otto ore sono passati a dieci. In cambio riposano più spesso, ma il gioco non vale la candela. Anche perché il conteggio parte dall’arrivo alla fresa, quindi un’ora dopo essere scesi sottoterra: finisce che lavorano dodici ore».
A essere rimasti col contratto da otto ore sono i lavoratori dello scavo tradizionale, che perforano il fronte, fanno brillare l’esplosivo, rimuovono i detriti, ricominciano. Tra loro Guido, 51 anni, operatore calabrese, che come molti in galleria viene da una famiglia di minatori. Alle radici è legato, per tornare ad Acri da moglie e figli impiega dodici ore di viaggio. I boati delle esplosioni arrivano sordi ai fronti delle frese, se chiedi cos’è stato ti senti rispondere: «Hanno brillato una volata».
La fresa non deve mai fermarsi. Via via che guadagna centimetri, la galleria viene rivestita di anelli formati da conci di calcestruzzo. Non deve mai fermarsi, quindi, neanche la produzione di conci. Lo stabilimento è a Varna (Bolzano) dove pure arrivano dai fronti di scavo, sul nastro, i materiali di risulta. In parte vengono riutilizzati per l’opera e in parte vanno a formare cumuli di granito frantumato, che negli anni hanno sollevato dal nulla un nuovo monte.
Nella fabbrica di conci si lavora tra i soffi di vapore delle macchine e i lampi di fiamma ossidrica dei «ferraioli» che assemblano le armature d’acciaio. «Ho scelto di pagarli a obiettivo, un metodo più moderno», spiega il direttore dello stabilimento, Nicola Ambruoso: «Ogni coppia deve fare dodici gabbie al giorno, poi non mi interessa se ci mettono sei o otto ore. Qui ho dipendenti di tutto il mondo: ucraini e algerini, gambiani e pakistani, gli italiani sono del Centro-Sud. Vanno seguiti, diciamo coccolati, c’è una dimensione psicologica che in altri ambienti manca: lavorano sei settimane di fila, magari stanno a duemila chilometri da casa e in più questo posto non offre nulla».
In effetti i cantieri e i dintorni sono decisamente isolati e pochissime sono le possibilità per il tempo libero.
Paesaggi magnifici ma lontani da centri abitati consistenti, da interazioni sociali. Nei dintorni si distribuisce lungo la Statale una serie di campi-base di prefabbricati. Qui vivono gli operai, in alloggi singoli con bagno privato. Qui sono ospitati gli uffici, la mensa, il bar. Chi non ha un mezzo proprio, ci spiegano, è spacciato: dipendente da chi esce, in attesa della gentilezza di un pacchetto di sigarette o di un po’ di frutta. Per tutti comunque la socialità è limitata, lo svago ridotto anche dalle misure anti Covid-19. Perché oltre a non potersi bere un bicchiere di vino (nei campi è proibito l’alcol, al massimo si trova birra analcolica) ai lavoratori non è consentito assembrarsi nel bar: c’è un biliardino ma è vietato giocarci e c’è un tavolo da biliardo ma il centro è occupato da un vaso con una pianta.
Alla fresa i meccanici di testa, quando si fermano, hanno gli occhi rossi e la faccia scura di polvere. L’ingegnere venezuelano Alberto accenna a loro: «Il vero minatore è chi sta a contatto con la roccia viva». Dal canto suo, si rende co nto dell’eccezionalità del contesto: «Non so se nella vita mi capiterà più un cantiere del genere», dice, nonostante sia giovane. Ha 33 anni, alcuni dei quali passati a lavorare a Buenos Aires prima di trasferirsi vicino a Vipiteno, a ridosso del cantiere: «Sono passato da una città di venti milioni d’abitanti a una frazione di due case».
Gli operai camminano nella direzione opposta a quella ancora da bucare. La stessa in cui partirà una nuova corsa della parigina, per chi dovrà spostarsi altrove o avrà finito il turno. Ogni volta che si torna indietro dal fronte di scavo, si percorre la galleria già realizzata, i chilometri già strappati alla Natura con la tecnica. Spazio e tempo si sovrappongono, negli scossoni e nel rumore, in ciò che le barre di neon scandiscono via via che si avvicina la destinazione. Ogni volta che il trenino si ferma, i lavoratori scendono, ci sono i furgoni e le auto per fare l’ultimo tratto sotterraneo verso l’uscita, e in una nicchia c’è una statuina di Santa Barbara, protettrice dei minatori.