La costruzione di una società senza criminalità organizzata inizia dietro le sbarre. Ma si deve rispondere al delitto con il diritto e la rieducazione. Come spiega il saggio di Bortolato e Vigna. Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni

Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna, "Vendetta pubblica. Il carcere in Italia", Laterza, pp.176. euro 14.

Un suggerimento per i parlamentari che nei prossimi mesi devono approvare una nuova legge sull’ergastolo ostativo dopo l’ultimatum della Corte Costituzionale: leggere il libro di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, e di Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera. Gli autori, nelle 148 pagine di un libro di agile lettura anche per chi non sa nulla di ordinamento penitenziario, hanno la capacità di condurci per mano sino a farci vedere dal di dentro la vita carceraria nella sua crudeltà e irragionevolezza; per poi indicare i necessari miglioramenti e, con uno sguardo lungo, proporre, nell’ultimo capitolo, qualche ipotesi per superare i limiti del modello carcero-centrico.

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Preliminarmente a ciascuno di noi è richiesto lo sforzo di superare quella soglia invisibile, che non è quella dei muri, ma quella della rimozione del problema: non considerare il carcere anche affare nostro, allo stesso modo in cui nella testa di qualcuno la detenzione non è altro che la segregazione sociale dei reietti, allontanati dalla nostra vista e vita. Ma così non è e non può essere perché, in primo luogo, «non esistono destini separati» (p. 16). Farsi carico dei destini di chi è “dentro” è interesse di chi è “fuori” molto più di quanto si possa immaginare.

Intanto, a parte gli ergastolani, espiata la pena tutti i detenuti tornano a vivere in mezzo a noi: «Cos’è che vuole, allora, il cittadino? Vuole che una persona quando esce dal carcere sia peggiore o migliore di come è entrata?» (p. 10). Il problema, tutt’altro che semplice, è la recidività, il rischio che una volta fuori si torni a delinquere; e questo non dipende per nulla dalla durezza delle pene.

Bortolato e Vigna presentano alcuni dati a partire da quello più drammatico di sette detenuti su dieci che tornano a delinquere, che diventano due su dieci quando «hanno espiato la parte finale della pena in misura alternativa» (p. 15), per crollare all’uno per cento tra chi, in cella o fuori, ha lavorato. Ma «solo a tre detenuti su dieci viene offerta tale possibilità» per effetto della profonda divaricazione tra quella che è la concreta vita carceraria e la finalità rieducativa della pena: il risultato della risocializzazione del detenuto va costruito con il trattamento penitenziario e rieducativo. Ad esempio, i permessi premio servono «a preparare gradualmente, negli anni, il detenuto all’uscita definitiva» (p. 130).

Voglio introdurre una personale riflessione autocritica. In trenta anni di militanza antimafia, con molti colleghi delle associazioni antiracket, abbiamo contribuito, a volte anche direttamente, con le denunce, le testimonianze, le costituzioni di parte civile, alla condanna di migliaia di mafiosi. Dopo le sentenze abbiamo considerato chiusa la partita con quegli imputati, del tutto indifferenti al loro destino carcerario, se non per invocare una rigorosa applicazione del carcere duro (art.41 bis dell’ordinamento penitenziario) a tutela della nostra stessa sicurezza.

Ma è stato giusto considerare esaurito così il nostro impegno? Credo, al contrario, che proprio per rendere più efficaci le nostre battaglie abbiamo l’obbligo di occuparci anche di ciò che accade in carcere e come si realizzano i percorsi di rieducazione delle persone che abbiamo fatto condannare. Credo si possa, senza attenuare in alcun modo la fermezza contro ogni forma di impunità, interessarsi ai diritti dei detenuti (la pena toglie la libertà personale e di movimento, «non può togliere una serie di diritti che andrebbero comunque garantiti», p. 77), anche di una parte dei mafiosi, per farsi carico dei percorsi di risocializzazione.

La «Costituzione parte dal presupposto che nessuno è irrecuperabile» (p. 9) e indica la finalità rieducativa della pena (più opportunamente definita «risocializzazione» e «reinserimento sociale», p.20): il detenuto una volta espiata la pena può reinserirsi nella società senza rischi per gli altri. L’idea della pena come «vendetta pubblica» allontana l’obiettivo, essa «di per sé è intrisa di violenza perché risponde alla stessa logica di chi ha commesso il reato» (p. 64).

È questo il terreno su cui si gioca una delle partite decisive anche nel contrasto alle mafie: la posta è l’alterità dei valori dello Stato democratico, il porsi su un piano distinto da chi delinque, non usare le stesse modalità di sopraffazione. Il detenuto deve essere considerato come persona con una sua dignità: «Se lo Stato tratta la persona nello stesso modo in cui il condannato ha trattato la sua vittima si rende uguale a lui e perpetua quella sopraffazione che è stata alla base del reato» (p. 13). È la grande lezione di Leonardo Sciascia. In un articolo del 1986, criticando l’antimafia del fascismo ai tempi del prefetto Mori che «aveva soltanto anestetizzato la mafia», lo scrittore sottolineava il limite di fondo:«Ci voleva altro» per estirpare la mafia, «ci voleva, per dirla semplicisticamente, più diritto: nel senso che bisognava mettere i siciliani nella condizione di scegliere, appunto, tra il diritto e il delitto e non tra il delitto e il delitto».

In una parte del mondo dell’antimafia viene spesso teorizzato il principio dell’irrecuperabilità assoluta dei mafiosi. Anche se la “rieducazione” funziona solo in pochi casi, è indispensabile promuoverla. È uno strumento decisivo nel confronto dei valori, per realizzare una possibile strategia di conquista culturale, di riduzione del consenso sociale delle mafie. E poi i mafiosi non sono tutti uguali. Non c’è dubbio che nei confronti di molti capomafia non funziona per nulla e la pena, giustamente, «si riduce alla sua mera funzione retributiva: una pura afflizione, un contenimento a scopo di difesa sociale» (p. 15).

Pena certa, spiegano gli autori, non vuol dire “pena fissa”, ma che «deve essere predeterminata in maniera conoscibile». La funzione rieducativa significa «contrasto alla neutralizzazione, alla incapacitazione, cioè al tentativo, che ha il carcere come istituzione totale, di passivizzare il suo paziente, di neutralizzarlo, di renderlo incapace» (p. 87).

E così veniamo al tema dell’ergastolo ostativo: la presunzione assoluta, il fatto che un soggetto sia ritenuto pericoloso in quanto tale, contraddice la funzione della pena stabilita nell’articolo 27 della Costituzione. Ognuno deve essere valutato individualmente. La Corte europea dei diritti dell’uomo che si è occupata dell’accesso ai benefici carcerari, con la sentenza del 2019, sottolinea che «la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso» (§ 125); la presunzione assoluta di pericolosità impedisce al detenuto di potersi riscattare perché «collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i delitti sono stati commessi, invece di tener conto del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna» (§ 128).

Da parte sua la Corte Costituzionale, pur riconoscendo che la pena può avere una funzione retributiva e di deterrenza e di difesa sociale, ammonisce che «nessuna di queste funzioni può mai sacrificare quella principale, cioè rieducare» (p. 88). La revisione critica del detenuto non vuol dire necessariamente ammissione di responsabilità e collaborazione con la giustizia: «Significa», spiegano gli autori, «partire da una riflessione su quanto sta scritto nella sentenza di condanna» (p. 89).

È bene precisare che nessuno sarà scarcerato a seguito di questa pronuncia (e della eventuale legge di recepimento). La Corte prevede la scarcerazione, per decisione dei giudici di sorveglianza, solo al termine di un rigoroso procedimento di verifica «sul contesto sociale esterno» e solo dopo aver acquisito i pareri delle DDA e della DNA e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (a cui partecipano anche i rappresentanti delle forze di polizia).

Non è vero che possa essere sufficiente “una regolare condotta carceraria”, è indispensabile dimostrare l’assenza di collegamenti in atto con l’organizzazione criminale e l’impossibilità di ripristinarli. Una cosa è il detenuto al momento del delitto e della condanna, altro può essere dopo decenni di espiazione in carcere: per esperienza sappiamo che per una parte degli ergastolani mafiosi e per la totalità dei capomafia il problema non si pone; ma per gli altri si ha il dovere, una volta superato l’ostacolo della “presunzione assoluta”, di verificare caso per caso.

A partire dalla prima pronuncia della CEDU e poi della Corte Costituzionale si è sviluppato un vivace dibattito all’interno del mondo antimafia, spesso con dure accuse (“Cancellati 150 anni di antimafia, i boss esultano”) oppure bollando “le anime belle” progressiste e garantiste come motivate da «interessi inconfessabili o anche soltanto per seguire la moda».

Se come assai chiaramente ha spiegato Bortolato, a proposito di alcune scarcerazioni nel momento più critico della pandemia, il principio rieducativo «in buona sostanza [..] ci difende dal populismo penale» (p. 87), «tutelare i diritti dei detenuti non significa cedere alla criminalità ma è anzi il miglior antidoto con cui combatterla» (p. 140). Esistono idee discordi, ma tutte meritevoli di considerazioni e rispetto; l’antimafia non può che essere plurale e c’è chi, come me, è d’accordo con Gherardo Colombo: «Credo che il sistema ‘carcere e basta’ non garantisca la sicurezza dei cittadini».

A volte ho l’impressione che si tenda confondere il mezzo con il fine. La detenzione, per quanto possa essere importante nel contrasto alle mafie, è però solo un mezzo, uno dei mezzi. Il fine è la liberazione dalla mafia, la fine della mafia, e per raggiungere questo obiettivo è indispensabile impedirne la riproduzione del fenomeno: con le sentenze si mettono in carcere i mafiosi, non si elimina la mafia. Per riuscirci bisogna saper interloquire anche con quei giovani nati e cresciuti dentro o ai margini del mondo mafioso, offrendo loro la forza della nostra alterità, la forza del diritto.

Bortolato ci ricorda che c’è qualcosa che «può più delle sbarre» (p. 40). È l’immedesimazione con la vittima: nel momento dell’atto il colpevole non pensa alla vittima; il percorso rieducativo passa anche attraverso questa consapevolezza al punto da indurre il detenuto ad attivarsi per riparare il danno; l’immedesimazione con la vittima può «essere più efficace della pena detentiva in sé: il carcere ritrova una sua utilità» (p. 40). Ed ecco le domande poste nel suggestivo ultimo capitolo del libro: «Può esserci un modello di giustizia alternativo alla giustizia penale così come la intendiamo? […] Un modello che vada oltre l’antico canone retributivo di partenza ma anche oltre quello rieducativo contemporaneo?» (p. 143). Escludendo alcuni pochi e gravissimi reati, mafia, omicidio, violenza su donne e bambini, si apre lo scenario della giustizia riparativa, la pena che serve a riparare l’offesa. Non è un’utopia, ma il tentativo di rispondere ad una necessità.