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Il diario di Giovanni Forti: «La mia vita con l'Aids»

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Giornalista de "L’Espresso", corrispondente dagli Stati Uniti, 38 anni, gay dichiarato, nel 1992 decise di raccontare la sua esperienza di malato di Aids: una testimonianza lucida, sincera e coinvolgente. La malattia è in fase avanzata, Forti morirà pochi mesi più tardi

Nell’estate del 1991 affittai una casa al mare, a Fire Island, non lontano da New York. Si tratta di una striscia di sabbia, lunga e stretta, dove le automobili non sono ammesse. Trovammo una casa piuttosto eccentrica, tutta di legno con scalette, corridoi, nicchie, stanze dalla forma inusuale, ripiena di soprammobili. Aveva anche una terrazza dove potemmo mettere una piscinetta di plastica per i bimbi. Oltre a me e al mio compagno Brett c'erano infatti Stefano, 12 anni, e Zachary, 3. Il costo era proibitivo (due miei stipendi) ma ne valeva la pena. Tutti, del resto, pensavamo che sarebbe stata la mia ultima estate.

La diarrea aumentava, il peso diminuiva, fino a 42 chili. Comunque ero sempre in grado di gioire della nostra famigliola e degli amici che venivano in visita. Andavo sulla spiaggia per un'ora o due, sotto l'ombrellone, avvolto in asciugamani. Guardavo Stefano giocare, come un giovane cervo, con Brett e con il mio amico Sam. È stata una bellissima estate. Sono stato diagnosticato sieropositivo nell'aprile del 1987 anche se ritengo di essermi contagiato nell'estate del 1981 durante una settimana di sfrenatezza nelle saune di San Francisco.

Dopo la diagnosi non feci assolutamente niente. Ma quando i miei linfociti T cominciarono a scendere i medici suggerirono che cominciassi una terapia a base di Azt, una medicina tossica ma che allora era l'unica che ostacolasse la replicazione del virus. Da quel momento la mia vita è stata scandita, ogni 4 ore, da un suono insistente: la mia scatolina portapillole, che poi con gli anni si è riempita di farmaci diversi fino a contenere anche 1O compresse. All'inizio facevo salti mortali perché non suonasse in pubblico, poi mi sono rilassato. A New York avere "la scatolina" equivale ad ammettere di avere l'Aids. La sindrome è onnipresente. Se uno vuole ossessionarsi non c'è che l'imbarazzo della scelta. "New York Times" alla pagina dei necrologi (cosa che mi sembrava così buffa quando la faceva mia nonna con "La Nazione") e ne trovavo sempre un paio. Anche quelli che sembrano eterni, che durano 4 anni, 6 anni, che si battono come leoni sconfiggendo le infezioni opportuniste, con terapie di tutti i tipi o solo con la meditazione trascendentale e l'omeopatia, alla fine muoiono.

C'è un senso di inevitabilità. Le organizzazioni per l'assistenza ai malati crescevano a dismisura, con bilanci milionari. C'erano sovente feste e iniziative per raccogliere fondi. Io ci andavo con il mio boyfriend di allora, James Revson, un giornalista mondano rampollo di una famiglia dell'aristocrazia ebraica. Spinto da lui comprai il mio primo smoking e entrai in contatto con una società newyorchese che mi sarebbe servita per i miei articoli. James aveva il sarcoma di Kaposi (KS), un cancro della pelle che si manifesta con lesioni purpuree. Era sempre stanco, faceva riposini, e prendeva un tassì anche per coprire la distanza di 500 metri. Questo mi innervosiva, e lo maltrattavo.

La nemesi sarebbe arrivata anche troppo presto. Cercavo di evitare di dover scrivere articoli sull'omosessualità e sull'Aids, sempre più strettamente collegati nell'immaginario collettivo, ma a volte naturalmente non potevo. Pubblicai così un'ampia inchiesta sugli scrittori americani e l’Aids. Quasi tutti coloro che intervistai allora sono morti. Uno di loro, Alain Emmanuel Dreuilhe, viveva in un loft tenuto in ombra e quando lo incontrai era sdraiato a letto, con una fleboclisi che gli si inseriva in un catetere innestato nel corpo. La trovai una cosa mostruosa. Malgrado tutto, questo clima funebre non mi possedeva, almeno non consciamente. Mi divertivo, viaggiavo, badavo a mio figlio, lavoravo. Il lavoro mi consentiva di conoscere cose e persone che altrimenti sarebbero state al di là della mia portata. Il virus lentamente si faceva strada nel mio corpo, e la prova era nel numero di linfociti T, costantemente in calo. Mi fecero passare una notte in ospedale per un esame, doloroso, al midollo spinale. A sera entrò nella mia stanza un prete massiccio, che si fermò a scambiare qualche parola. Quando andò via lasciò il suo biglietto da visita: John Cardinal O'Connor. Pensai di avere sognato ma le infermiere mi confermarono che l'arcireazionario primate veniva spesso in visita nei reparti dell’Aids. I medici decisero di aggiungermi nuovi farmaci. Io ero passato dall'ospedale Saint Clare's e da una dottoressa di Brooklyn, brusca e ambiziosa, al St Luke's Roosevelt, con un medico tondo e biondo, tutto pacioso. Anche troppo.

Dovevo adesso pagare le visite, ma una parte della spesa mi veniva rimborsata dall'ente di assistenza dei giornalisti. Avevo scelto di non rivelare a nessuno la mia condizione, tranne che al mio amico Sam e a mia sorella. Ma un'estate mia madre lesse il mio diario e lentamente la notizia filtrò. Del resto sarebbe stato presto impossibile nasconderla. Nel giugno 1990 avevo incontrato Brett e il suo figlio adottivo Zach. Vivevano a Brooklyn, in una casetta di un quartiere caraibico vicino a un grande parco, ma quasi subito si trasferirono da me al Village. L'estate del 1990 la passai in Vermont, in una casa nel bosco, con Stefano, Sam, mia sorella e un'amica. Rivado con rimpianto a quelle passeggiate, a piedi o in bicicletta. Oggi non ne sarei più capace e per passeggiate lunghe devo andare in sedia a rotelle. Era uno dei periodi più felici della mia vita. Imparavo a conoscere Brett e il bambino, tra i quali c'era un rapporto talmente stretto e intenso che era difficile inserirvisi. Stefano era tornato in Italia e mi mancava molto, ma la sua assenza era in qualche modo compensata. Brett si prendeva molta cura di me e io mi godevo il calore familiare quasi dimenticato. In novembre, dopo una settimana di visita in Italia, andammo quasi immediatamente in California per la festa del Ringraziamento.

Lì ebbi il primo crollo, che attribuii al doppio fuso orario. Dormii quasi sempre, e iniziò la diarrea. Le amiche che ci ospitavano, e che non sapevano ch'io fossi sieropositivo, rimasero sconvolte. Nel giugno 1991 ci sposammo in una piccola sinagoga e per una serie di circostanze l'avvenimento privato finì con l'essere annunciato in tv. Vennero i nostri genitori, i miei dall'Italia, i suoi da

Philadelphia, e tutti i nostri amici. La cerimonia fu tradizionale, con la "huppah", il baldacchino sostenuto dai nostri più cari amici, e i bicchieri rotti sotto i piedi. Ma già durante il ricevimento, che si teneva nel nostro appartamento, dovetti andare in camera da letto a riposare e di nuovo la sera, per la nostra «microluna di miele» (gli amici ci avevano pagato una notte all'elegante Hotel Carlisle) appena arrivati alle sette dovetti dormire per due ore. Ero anche un po' rattristato dalla rinuncia ai nostri progetti adottivi.

Avevamo fatto domanda per una bambina e io ero così lieto che sarebbe stata figlia di tutti e due, e pensavo ci avrebbe unito ancora di più. Per Zach poi sarebbe stato bellissimo avere una sorellina. Ma con la mia salute che cominciava a deteriorarsi Brett mi convinse che non era il caso. Vi erano altri motivi di tristezza. Venni a sapere dal giornale che era morto James Revson. Fu uno shock perché gli amici comuni non mi avevano detto niente sulle sue condizioni, anche perché lui aveva chiesto che io non andassi a trovarlo in ospedale né partecipassi al funerale. Tanto rancore mi addolorava ma forse c'era qualche buona ragione. Più o meno nello stesso periodo morì anche l'ex compagno di Brett. Le cose non si mettevano felicemente. Già da novembre non stavo bene. Era cominciata la diarrea accompagnata da febbre. In agosto, a Fire Island, le febbri divennero altissime e la diarrea di tipo esplosivo, spesso sporcavo tutta la tazza e anche il pavimento. A volte la facevo nelle mutande. Mi indebolivo e dimagrivo a vista d'occhio. Alla fine del mese sembravo quasi un superstite di un campo di concentramento. È allora che le mie notti cominciarono a essere tormentate, con risvegli ogni poco per fare pipì. Mi rendo conto che questi sono particolari poco attraenti, ma anche di questo è stata fatta la mia vita in questi mesi. Cominciavo a essere spesso stanco e non potevo stare a lungo sulla spiaggia né contribuire all'andamento familiare.

Per Brett, purtroppo, la vacanza a Fire Island si rivelò faticosa, anche perché due giorni alla settimana andava a New York a lavorare. Non permettevo ai pensieri morbosi di dominarmi ma credevo di sapere cosa stesse succedendo. Decisi di parlare a Stefano che era venuto dall'Italia per passare il mese di vacanze con noi, ma a quanto pare ci fu qualche intoppo nella conversazione perché io non pronunciai la parola Aids e lui non capì affatto che tutti i miei discorsi sull'infezione portavano a questo. Finalmente fu necessario che Brett gli parlasse chiaramente perché lui afferrasse la portata di quel che stava succedendo. Molto allarmato, ai primi di settembre Brett insistette per farmi ricoverare in ospedale. All'inizio ero orripilato, ma poi quasi sollevato all'idea che ci fosse qualcuno che si prendeva cura di me 24 ore su 24. Il mio compagno di stanza, da me separato solo da una tendina di plastica, era un tossicodipendente ispanico di nome Manuel. Una coabitazione difficile. Manuel smaniava molto. La notte chiamava l'infermiera. «Voglio una coperta!». Così per sette volte di seguito, una notte, finché esaurirono le coperte di scorta.

Chiedeva antidolorifici sempre più forti. «Ma lasciagli il tempo di fare effetto», protestavano le povere infermiere. «L'hai presa appena 40 minuti fa». Teneva la tv ad alto volume e da sveglio saltellava tra i canali; spesso, però, sonnecchiava, sempre naturalmente con la tv accesa. Perfino quando c'era la sua intera chiassosa famiglia a visitarlo lo schermo blaterava. Quasi subito, con una piccola operazione, mi inserirono il catetere nella pancia, con un tubicino di plastica che va su fino al collo. Un ordigno semplice ma che cambiò il modo con cui guardo al mio corpo.

Mi sento l'uomo bionico. Questa protuberanza fa sì che io non possa più nascondere la mia situazione diventata visibile, quasi come un nero la cui diversità è evidente, e non come un gay che può nascondersi se lo vuole.

Brett veniva tutti i giorni e credo che per lui tutto sommato sia stato anche un periodo di riposo. All'inizio non volevo vedere nessuno, poi ricevetti alcune visite. Ero come sempre di buon umore ma mi stancavo molto facilmente. Chiesi il trasferimento in un'altra stanza ma Manuel mi colse d'anticipo e decise di farsi dimettere, contro il parere di tutti i medici. Speravo che il nuovo compagno di stanza sarebbe stato qualcuno con cui poter parlare di argomenti in comune; invece venne un negro di una certa età, con pochi denti, molto quieto. Ero imbarazzato della scoperta del razzismo in me, ma sembrava difficile combatterlo nella mia situazione. Ero sempre attaccato alla fleboclisi, 24 su 24, una specie di mammella nutriente che non si sottraeva mai. Quando fui dimesso venivano a casa delle infermiere, che insegnarono a Brett il quale diventò un paramedico provetto. Ogni pochi giorni si cambiava l'ago perché non si infettasse e se ne infilava uno nuovo. In questa situazione molti pensavano fosse assurdo per me e Brett persistere nell'idea del trasloco a Roma. A quel tempo usavo circa 40 tra pillole e accessori vari (aghi, tubi, boccette di cloruro di sodio, ecc.) piuttosto complicati da portare con noi (temevamo anche la dogana). Ma erano vari motivi per rinviarlo, di cui il principale era che già da un anno ero separato da Stefano e volevo riunirmi a lui. Per di più non ero in grado di lavorare ed era cosa più grave che fosse in queste condizioni un corrispondente che un redattore senza attribuzioni specifiche. La compagnia di traslochi impacchettava tutto per noi e così non c'era molto disagio. Brett, come sempre dispiegò una prodigiosa energia. Un caro amico dette un party d'addio per noi - più di cinque anni di vita. Naturalmente ci furono i soliti intoppi: persone carissime che non erano potute venire e sconosciuti che risultarono l'anima della festa. Poi partimmo.

A dire la verità non aveva una gran voglia di tornare in Italia e soprattutto avrei molto desiderato restare a New York, ma in genere non guardo mai indietro. A Roma ci aspettava, quasi pronto, un appartamento trovato da mia madre a Trastevere, arredato molto tradizionalmente e con una terrazza. Sembrava paradossale che proprio mentre io mi restringo psicologicamente sempre di più e devo ridurre drasticamente le attività che mi sono concesse, attorno a me si distenda la casa più grande che abbia mai avuto. È bello avere accanto, a poche centinaia di metri, mia madre e mia sorella. Da una siesta al giorno sono passato a due: una la mattina dopo la fleboclisi, e una il pomeriggio dopo mangiato. La sera verso le 20,30 vado a letto. Orari che non inducono a una intensa vita sociale e culturale. Tutto è peggiorato quando i medici italiani mi diedero una fleboclisi nutriente di 7 ore al giorno. Allo stesso tempo una dieta rigida: niente latticini, verdura o frutta, con poche eccezioni. Del resto la situazione si stava di nuovo deteriorando come in settembre. In novembre il dottor Sette, mio medico curante allo Spallanzani, decise di farmi ricoverare. Era un grande stanzone, i pazienti quasi tutti tossici, ma quieti, gli infermieri gentili e pronti. I medici, come poi si è rivelato, bravi, ma pomposi. Arrivavano ogni mattina ai piedi del mio letto e leggevano la mia cartella clinica. Io non capivo: non avrebbero potuto farlo nel loro ufficio?

«Questo giovane non riesce a mangiare», proclamava uno. «Io veramente mangio benissimo». «Ah sì?», rispondeva lui stupito. Chissà come si era formata quell'idea. Fatto sta che qualcosa di giusto devono averlo imbroccato perché ho continuato a migliorare impercettibilmente, almeno come peso corporeo e frequenza della diarrea. Essere in ospedale mi ha obbligato a confrontarmi con la morte. Se non mi piace parlare di Aids in generale, per me la morte è sempre stata l'estremo tabù. Ma ora è inevitabile. Ho fatto testamento per esempio. Ho lasciato scritto che non voglio si pratichi su di me l'accanimento terapeutico. Ma è una cosa alla quale ancora non riesco a credere. Io potrei non esserci più? Certo, come uomini stiamo andando verso la morte, ma io vi sono un passo più vicino.

L'unica cosa, per non tormentarsi, è riconciliarsi con questa idea, mentalmente chiedere perdono e perdonare, e sperare che qualcosa resti. Scrivo il grosso di queste righe in ospedale. Di fronte alla mia finestra vi sono due pini romani. Li guardo all'alba e al tramonto e il mio cuore si riempie di gioia. Sono, come sempre, ottimista.