Un risultato importante per la comunità Lgbt+: sarà possibile decidere il genere in maniera completamente autonoma

La mappa degli Stati che permettono il cambio di sesso sul certificato di nascita si fa sempre più rainbow. La Nuova Zelanda ha votato a favore di una legge che faciliterà le persone trans e con identità non binarie (cioè che non si riconoscono nel binarismo di genere femminile-maschile). Al mondo, il Paese dell’Oceania si aggiunge ad altri 15 Stati che considerano l’autoidentificazione come una scelta progressista fondamentale da aggiungere ai diritti civili.

Lo Stato raggiunge con questa decisione l’ultimo passaggio di un percorso attento alle minoranze, che va avanti da diversi anni. È infatti della Nuova Zelanda Laurel Hubbard, la prima atleta trans della storia a partecipare alle Olimpiadi (Tokyo 2021).

Nel 2018 poi, il Paese aveva deciso di riconoscere l’autoidentificazione sui certificati di nascita. Ora sarà possibile senza dover dimostrare di essersi sottoposti ad un percorso medico. Ogni individuo potrà allineare quindi, per sua volontà personale, identità di genere e sesso.

Esultano le persone trans e quelle non binarie neozelandesi, che da tempo chiedevano un passo in avanti per la tutela delle minoranze.

"Questo cambiamento di legge farà davvero la differenza per i neozelandesi transgender, non binari, takatāpui (LGBT) e intersessuali", ha detto la ministra degli Interni Jan Tinetti. La legge serve a migliorare la salute mentale e il senso di benessere di questa minoranza, ma anche a perfezionare lo scenario culturale delle generazioni future.

Secondo un sondaggio del 2018 sulle persone trans e non binary, l’84% (cinque su sei) di loro non aveva ancora, sul documento di nascita, l’identità di genere a cui si sentiva di appartenere. La legge è frutto anche di questa analisi, che ha portato il governo neozelandese a promuovere il testo, nonostante le critiche.

La cosiddetta “self-id” è una questione in grado di spaccare paesi e culture, eppure si sta lentamente affermando in maniera trasversale in tutto il mondo. La Nuova Zelanda si aggiunge ad un elenco che comprende già la Spagna, Malta, la Norvegia e la Danimarca. E ancora New York City, California, Oregon, Washington, Idaho per finire con alcuni paesi dell’America Latina (come l’Argentina, ad esempio).

L’Italia è ancora al primo step. Se nel 1981 poteva considerarsi in regola per aver disciplinato la rettificazione del cambio di sesso, ora è significativamente retrocessa. C’è da dire che nemmeno i paesi più avanzati sui diritti civili hanno attuato ancora una norma specifica in materia. Il parlamento italiano esce di recente dall’intenso dibattito della legge Zan, in cui il nodo della discussione è stato proprio l’identità di genere.

Il fronte della destra conservatrice è riuscito a coinvolgere anche parte dei progressisti, e non sono bastati neanche i “rari nantes” della destra riformista che si erano detti favorevoli alla proposta di Zan.

Non sono mancate anche fuori dal Parlamento le opposizioni da parte di gruppi cattolici e di alcune associazioni femministe. Eppure, il dibattito sull’identità di genere diventa sempre più comune in tutto l’Occidente.

Ma come funziona nel nostro Paese il cambio di genere? Sul sito infotrans.it dell’Istituto Superiore della Sanità, il percorso per “rettificare l’attribuzione di sesso” è spiegato in ogni passaggio. Il procedimento segue il testo della legge 14 aprile del 1982. Inizialmente la persona si deve rivolgere alle strutture che offrono servizi per il percorso di affermazione di genere. La durata del percorso è soggettiva. Solo dopo aver svolto questo iter sarà possibile chiedere al Tribunale di competenza il cambio di sesso. Nel 2015 la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza importante in materia, riconoscendo come legittimo il cambio di sesso anche senza l’intervento chirurgico. Questo, solo se la persona riesce a dimostrare al giudice di essersi perfettamente immedesimata nel genere in cui si sente più a suo agio. Si parla quindi di avere un rapporto sereno con i propri cari, con la rete di affetti secondari, il lavoro, la società in cui vive etc.

Manca però l’autodeterminazione diretta (quella riconosciuta in Nuova Zelanda), perché sulla carta con quest’ultima sentenza, sembra che per trans e non binary non ci sia nessun problema. La realtà invece ci ricorda tutti i limiti del nostro paese: i tempi di un processo e l’etica del giudice. Cosa più importante, gli affetti personali potrebbero non essere necessariamente d’accordo con la scelta.