Per qualcuno il lockdown non è mai finito e le passeggiate tra quattro mura sono inevitabili. Tenuti in cattività, considerati un passatempo esotico per i visitatori, gli animali chiusi in gabbie o recinti soffrono e vagano e si annoiano, lontani dai loro habitat naturali, sotto gli occhi dell’umanità che paga un biglietto per osservarli. In Italia, che pure è all’avanguardia dal punto di vista delle tutele legali, è ancora possibile per un ordinamento giuridico che Claudia Ricci, avvocato esperto di diritti degli animali, definisce «un paradosso in termini». Perché l’animale, nel nostro Paese, risponde al contempo alla domanda “chi, che cosa?”. Che in questo caso nulla ha a che fare con l’analisi logica e molto dice della protezione accordata alle diverse specie.
Un animale è un “cosa” ogni volta che viene utilizzato, dunque se si tratta di sperimentazione, allevamenti per produzione di carni e pellami, attività circensi. A patto che, spiega Ricci, «vengano rispettate le norme di settore, senza arrecare più sofferenze del necessario». Ma è anche un “chi”, dal momento che la giurisprudenza lo ha riconosciuto come essere senziente, capace di provare sofferenza ed emozioni. «Persino il pesce rosso ha l’intelletto di un bambino di tre anni, è un dato inconfutabile. Che deve però sposarsi con i criteri economici e con quelli votati all’antropocentrismo, mangiare la carne, indossare scarpe di pelle. Allora, bisogna chiedersi: cosa è più importante per me? Continuare su questa via o sapere che il maiale che mangio ha la stessa intelligenza del cane che mi porto dietro quando vado al ristorante?», dice l’avvocato.
Oltre alle indicazioni internazionali, tra cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’animale dell’Unesco e le carte europee, il nostro quadro normativo è piuttosto all’avanguardia. C’è la legge 281 del 1991, a tutela di animali da affezione e randagi, che delega a Regioni, Comuni e Asl la gestione di quelli presenti sul territorio. La 189 del 2004, che ne vieta il maltrattamento e l’uso in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate. «Un provvedimento con cui si è modificato il codice penale, introducendo il titolo nono bis», spiega l’avvocato Ricci, chiamato “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”. L’assunto nasce dunque in ottica antropocentrica, e cioè l’animale viene tutelato proteggendo il sentimento di pietà e compassione che i maltrattamenti susciterebbero nell’essere umano. Ma con il tempo si è fatto un passo in più, che è quello da cui muove anche Ricci nelle sue cause: «Gli animali sono un “chi”. Quindi soggetti di diritto, seppur mediato. E i processi li vinciamo, perché questa linea difensiva ha ragion d’essere».
C’è poi la 157 del 1992, il cui articolo uno recita: «La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato». È questa la legge che il referendum sull’abolizione della caccia, poco partecipato rispetto agli altri promossi in Italia, avrebbe voluto abrogare. Compiendo quello che la presidente nazionale di Enpa (Ente nazionale protezione animali) Carla Rocchi definisce «un clamoroso passo indietro». Perché, dice, «in Parlamento il provvedimento, ancora all’avanguardia, sarebbe stato modificato al ribasso, con la conseguenza che ogni Regione avrebbe legiferato a suo piacimento».
Insomma, le norme ci sono. A mancare, secondo l’avvocato Ricci, «sono le aggravanti speciali all’interno del codice penale». Ovvero aumenti di pena in casi specifici di maltrattamenti, in grado di consentire l’applicazione di misure cautelari fondamentali per evitare i reati vengano reiterati. Nel frattempo, la legge che inserisce la tutela degli animali in Costituzione, modificando parte dell’articolo nove sulla protezione del paesaggio, ha ottenuto il penultimo via libera dal Parlamento. Ma, chiarisce l’avvocato Ricci, «introdurre una tutela tout court è difficile. Il problema da noi è molto più economico che filosofico, perché ormai la scienza ce lo dice: gli animali sono esseri senzienti. Dunque il sistema va rivisto per settori, in modo graduale, e l’impulso, a prescindere dall’inserimento in Costituzione, deve partire da una rivoluzione civile, dai cittadini. Mettendoci in testa che siamo tutti inquilini dello stesso palazzo: esseri umani, animali, piante».
In Europa e all’estero se ne stanno accorgendo. La Francia ha approvato una legge storica, che entrerà in vigore nei prossimi anni. Nel Paese in cui, denuncia la Société protectrice des animaux (la più antica associazione animalista), vengono abbandonati ogni anno 100 mila animali, saranno inasprite le pene per chi li sopprime senza giusta causa, abbandona o maltratta. Non sarà più possibile usare specie selvatiche in circhi e parchi acquatici, allevare visoni per la loro pelliccia, vendere cani e gatti nei negozi. «Un provvedimento innovativo, che dovrebbe essere d’ispirazione anche per noi, perché vietare la vendita diminuirebbe il commercio illegale di animali, spesso provenienti dall’Est europeo», dice Sara Turetta, fondatrice dell’Associazione Save the dogs, attiva tra Italia e Romania. Certo rimarrebbe il traffico online, che alcuni Paesi hanno già regolamentato e Turetta spera lo faccia presto anche l’Italia, ma sarebbe un primo passo. Anche la Spagna (circa 300 mila tra cani e gatti abbandonati l’anno secondo Fapam, unione di associazioni animaliste) sta lavorando su un disegno di legge che vieti ai circhi di sfruttare animali selvatici e blocchi la vendita di quelli da compagnia nei negozi. Mentre in Grecia il governo ha inasprito la pena detentiva, portandola fino a dieci anni in caso di uccisione o torture.
Riconoscere i sentimenti degli animali e reputarli, di conseguenza, non beni ma soggetti destinatari di tutele è sempre meno un vezzo naif e sempre più un’esigenza condivisa. Spesso con provvedimenti ancora simbolici, come quello che nel Regno Unito considera aragoste, granchi e polpi esseri senzienti pur non modificando «alcuna legislazione esistente, la cattura, l’industria della ristorazione». O la decisione del tribunale federale di Cincinnati, negli Stati Uniti, che ha riconosciuto come persone giuridiche gli ippopotami eredi dei “cocaine hippos” del narcotrafficante Pablo Escobar. Della sorte dei mammiferi, soggetti peraltro a una campagna sperimentale di sterilizzazione effettuata con dei dardi, saranno comunque le autorità colombiane. Ma la decisione della corte è segno di una sensibilità in evoluzione.
In questo senso, è simbolico il caso di Happy, l’elefantessa catturata in Asia a un anno, dal 1977 in cattività allo Zoo del Bronx di New York, dal 2006 sola in un recinto. Happy, che come gli altri sei fratellini ha preso il nome di uno dei sette nani, Gongolo nel suo caso, vive in solitudine da quando sono morte le sue compagne inseparabili. Grumpy per le ferite inferte da altre due elefantesse e Sammie per una malattia ai reni. Happy, che oltre all’uomo, ai delfini e agli scimpanzé è stata in grado di riconoscersi allo specchio (un indicatore di autocoscienza) e toccare con la proboscide la “X” bianca che gli studiosi le avevano disegnato sulla fronte, potrebbe diventare il primo elefante con lo status giuridico di persona negli Usa. Perché Nonhuman rights project, l’associazione che si batte affinché vengano riconosciuti i diritti fondamentali agli animali, è riuscita a portare il suo caso davanti alla Corte d’appello di New York. Chiedendo di farle esercitare il suo diritto alla libertà, per portarla in un rifugio e farla vivere a contatto con i suoi simili. Ma lo zoo si oppone, sostenendo che dopo tanti anni in cattività Happy non sarebbe in grado di vivere in compagnia.
«Sarà un risultato straordinario comunque. Se vinciamo un elefante avrà dei diritti, se perdiamo la sua storia sarà significativa, perché tutti i cambiamenti richiedono tempo», dice Steve Wise, presidente dell’associazione. Happy, che probabilmente da piccola ha assistito alla morte della madre (nella società matriarcale degli elefanti la mamma protegge il suo cucciolo con la vita), ha passato la vita a soddisfare gli occhi degli umani. Sollevandosi sulle zampe e sedendosi sugli sgabelli, ha fatto la felicità di tanti bambini. Dopo un’esistenza trascorsa ad accontentare gli altri, merita gli altri la ripaghino con un gesto di riconoscenza.
Quella che tante volte il mondo animale ci ha insegnato, anche da piccoli e con gli occhi lucidi. Abbiamo imparato dalla mamma di Dumbo, che con le zampe in catene culla il figlio con la proboscide («bimbo mio vieni qui, no non pianger così»). E da quella di Bambi, quando lo sparo di un cacciatore ne interrompe la corsa folle per trovare rifugio con il suo piccolo nel bosco. Forse, è arrivato il tempo di restituire agli animali una parte della gratitudine che ci dimostrano ogni giorno. Non in nome di un capriccio da animalisti, ma come segno di rispetto per l’ecosistema. In cui l’essere umano è solo uno, e non il solo, degli ospiti temporanei.