Mascherine, guanti e tute certo. Ma anche imballaggi per il cibo da asporto, oggetti usa-e-getta, confezioni monodose. Per superare la pandemia stiamo preparando il terreno a un nuovo disastro ambientale

Sarà lunga, lunghissima, l’uscita dalla pandemia. Ma attraverso vaccini, tracciamento e investimenti, inizia a sembrare possibile. Un’altra pandemia invece cova sotto l’attuale, e uscirne sembra molto più complicato, se non impossibile. Non ci sono infatti barriere o farmaci che possano tener lontana la plastica dall’aria, dall’acqua, dall’ambiente, dal cibo che mangiamo, dagli animali e dagli ecosistemi in cui viviamo.

 

I rifiuti di plastica stanno sommergendo il mondo, inquinando fiumi e oceani, mettendo a rischio specie (700, solo per quelle marine), arrivando a cambiare lo stesso comportamento biologico degli umani. Oggi la prima pandemia chiama la seconda. Perché per proteggersi dal virus sono necessarie distanze e protezioni, fatte di plastica. Ogni mese vengono prodotti globalmente 129 miliardi di mascherine, di plastica; 65 miliardi di guanti, di plastica. A cui vanno aggiunte visiere, sacchetti, pellicole. Con il ritorno massiccio della plastica nelle confezioni monouso per motivi di igiene e l’aumento delle consegne a domicilio, unico spazio rimasto per i ristoratori, la plastica torna padrona di casa e delle strade.

 

Mentre l’industria arranca, così, e produce meno rifiuti, le case ne accumulano come mai prima, soprattutto per quanto riguarda, appunto, pellicole e vaschette. Nel primo quadrimestre del 2020 Corepla, il consorzio per la raccolta della plastica, ha segnato fra aprile e maggio un aumento dell’otto per cento negli imballaggi plastici gestiti, dopo anni di calo, come notava Eva Alessi del Wwf in una presentazione alle Nazioni Unite. Il mercato globale della plastica è proiettato verso la crescita continua: dai 900 miliardi di dollari del 2019 alla cifra stellare di 1.012 miliardi nel 2021, soprattutto grazie alla pandemia.

 

Un’invasione che sta iniziando ad avere conseguenze tangibili anche in Italia. Non solo per la pressione sugli impianti di smaltimento, o per la presenza di rettangoli azzurri da mascherine buttate per strada o sulla spiaggia. Non solo per gli interessi delle mafie nello smaltimento o per i costi dell’export di scarti. Ma anche più semplicemente per il minor impegno sul problema. La minaccia plastica è infatti dimenticabile, apparentemente procrastinabile con l’illusione del riciclo - che un’importante inchiesta trasmessa l’anno scorso dalla Pbs e dalla National public radio (Plastic wars) ha dimostrato essere, di fatto, quasi un’illusione appunto: per molti composti non c’è alcuna possibilità di riuso e per altri è raramente conveniente, ad oggi, sul piano economico o energetico. Nei documenti delle grandi aziende petrolchimiche esposti dai giornalisti il marketing legato al riciclo assume una nuova faccia: pensare che sia possibile dare nuova vita a vestiti o pacchetti fatti di materiali plastici tiene in piedi il consumo. In questi mesi di paura, gli aspetti positivi (igiene, economicità) hanno prevalso poi sul presentimento del peso che ogni confezione gettata dopo poco inesorabilmente avrà sull’ambiente.


Dell’aumento dei rifiuti si sono accorti per primi i medici e gli infermieri di ogni reparto d’Italia, uscendo dalle zone-filtro dove devono togliersi le protezioni che indossano (tute, calzari, maschere ffp3, visiere e occhiali), per necessità monouso, da buttare ogni volta. Un rito fondamentale, che si conclude nei bidoncini gialli e neri dei rifiuti sanitari, che devono essere ritirati con una frequenza prima impensabile. Il presidente di Eco Eridania, una delle maggiori società di gestione di rifiuti speciali in Italia, ha parlato di un aumento del 20 per cento delle consegne da parte degli ospedali, spiegando poi che i camion con i bidoni carichi di tamponi usati o dispositivi di protezione viaggiano per lo più verso impianti autorizzati a bruciarne il contenuto (l’Ispra, l’istituto nazionale per la protezione dell’ambiente, ne ha certificati 26).

 

Articoli pubblicati in questi mesi sulle riviste scientifiche internazionali hanno fatto il quadro sul mondo: l’ospedale universitario King Abdullah in Giordania ha prodotto dieci volte tanti rifiuti rispetto all’attività normale, arrivando a buttare 650 chili di spazzatura al giorno per 95 pazienti Covid-19 curati. In Catalogna e in Spagna l’incremento è stato del 350 per cento. L’esempio più citato è quello di Wuhan, dove gli 11 milioni di abitanti della città hanno prodotto in un solo giorno, il 24 febbraio del 2020, 200 tonnellate di rifiuti sanitari, quattro volte il carico che poteva essere bruciato dal termovalorizzatore municipale. In una lettera inviata a dicembre al British journal of Medicine, tre ricercatori ricordavano come il servizio sanitario pubblico inglese (Nhs) invii al recupero solo il 5 per cento delle 133 mila tonnellate di rifiuti di plastica che produce ogni anno.

 

«La pandemia non dovrebbe far eclissare l’emergenza climatica», sottolineavano gli autori. Sembra invece esattamente quello che sta succedendo. I consumi sono tornati ad ancorarsi su materiali il cui fascino sembrava superato: bottigliette d’acqua, merende monodose, frutta confezionata anziché sfusa, e soprattutto, cibo impacchettato consegnato direttamente a casa. «Stiamo assistendo ad un forte incremento del numero di prodotti venduti confezionati: + 2,3 miliardi di confezioni vendute dalla distribuzione moderna nel 2020 rispetto al 2019», racconta Silvia Zucconi dell’osservatorio del packaging del largo consumo di Nomisma: «La crescita delle vendite di prodotti confezionati è certamente dovuta alla ricanalizzazione degli acquisti, ma anche alla ricerca di rassicurazione e di sicurezza. Nel fresco le vendite confezionate a peso imposto sono cresciute nel 2020 del 10 per cento. L’attenzione alla sostenibilità resta ugualmente molto alta però. Il 14 per cento dei consumatori ha smesso di acquistare un prodotto negli ultimi 6 mesi a causa di un packaging ritenuto non sostenibile e il 61 per cento dichiara che potrebbe farlo nei prossimi 12 mesi».

 

Mentre la plastic tax in Italia slitta ancora al primo luglio del 2021, il Financial Times avvertiva il 23 febbraio che il prezzo dei polimeri usati per produrre la plastica è ai massimi degli ultimi sei anni per l’aumento della domanda. Tanto che i produttori europei prevedono di dover alzare i costi per la distribuzione. Plastica e ancora plastica. A Singapore solo nelle otto settimane di lockdown le consegne a domicilio dei pasti hanno prodotto 1400 tonnellate in più di rifiuti plastici. Certo: nelle città ci sono meno turisti, uffici e mense sono a passo ridotto, l’isolamento diminuisce gli sprechi. Fra marzo e aprile dell’anno scorso il calo nell’immondizia urbana è stato del 10 per cento, stima l’Ispra: 500 mila tonnellate di spazzatura in meno nelle città. Un bel sollievo, visto che in compenso i rifiuti dovuti solamente a guanti e mascherine sono stimati in circa 300 mila tonnellate per il 2020, considerando un peso medio di 11 grammi a mascherina. E ci sono altri aspetti da guardare: in un sondaggio promosso fra aziende municipalizzate e impianti di riciclo dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile (ente a cui aderiscono colossi come Terna ed Acea), per il 50 per cento delle imprese che si occupano di rifiuti la qualità della raccolta differenziata è peggiorata durante l’emergenza, fra marzo e maggio. Per tornare a migliorare nei mesi successivi.

 

Il problema è però un altro: la fine che fanno i materiali raccolti. Con le grandi aziende chiuse, in primavera, e poi riaperte solo ad un passo più lento soprattutto nelle esportazioni, i principali acquirenti di imballaggi prodotti da carta o plastica riciclata sono diminuiti drasticamente. Così aumentano gli invii di usa-e-getta a cementifici e termovalorizzatori. Solo che non tutti i rifiuti possono essere bruciati. «Diversi riciclatori di rifiuti in plastica, soprattutto quelli che riciclano rifiuti a più basso valore aggiunto, hanno stoccaggi di materie prime-seconde decisamente superiori allo stock fisiologico», scrive allora la Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel rapporto: «Perché hanno supportato il ritiro dei rifiuti nei mesi precedenti quando la domanda era praticamente azzerata». Si accumula. Per evitare che per ragioni di spazio e sicurezza gli impianti smettessero di accettare i rifiuti, il ministero per l’Ambiente aveva diramato subito, a marzo del 2020, una circolare che invitava le regioni a prevedere delle deroghe straordinarie per gli impianti. Regione Lombardia, ad esempio, l’ha fatto subito, alzando la possibilità di accumulo.

 

Alessandra Dolci, il magistrato a capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, l’ha scoperto direttamente da alcuni esponenti della ’Ndrangheta che brigavano per fare affari il più velocemente possibile sui cambiamenti avvenuti durante il lockdown: «Abbiamo appreso dall’attività di intercettazione di una determina della Regione Lombardia del primo aprile, scaduta il 31 agosto, che, in deroga alla disciplina in vigore, consentiva lo stoccaggio di un quantitativo di rifiuti superiore al 20 per cento per le società già in possesso di una regolare autorizzazione a gestire i rifiuti, sulla base di una semplice autocertificazione», ha raccontato il procuratore aggiunto: «Sono bravi ad approfittarne: dell’esistenza di quella determina ne sono venuta a conoscenza dall’attività di intercettazione. Loro lo sapevano prima di me».

 

Aumentare gli stoccaggi, ci insegnano i roghi nelle aziende dismesse usate come discariche alternative, è un rischio e va considerato solo un’emergenza. I roghi degli anni scorsi venivano in parte collegati al blocco dell’importazione di rifiuti plastici di scarsa qualità da parte della Cina. Un blocco che ha avuto conseguenze importanti in Europa. L’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, pubblicato a gennaio, mostra bene cosa sta succedendo: l’export di plastica esausta in Cina è passato dal milione e mezzo di tonnellate del 2015 alle 23.690 del 2019. Non che sia scomparsa la materia. Ora viene spedita in container colmi in Malesia (da 137 mila tonnellate a 404 mila), in Vietnam, Indonesia, e soprattutto in Turchia, passata da importare 579 tonnellate di rifiuti plastici nel 2002 a 409 mila nel 2019. Settecento volte tanto. Un business lucroso per alcuni e necessario per il sistema del commercio ma a discapito, ancora una volta, dell’ambiente: i giornalisti di The black sea stanno monitorando il feroce aumento di vallate tossiche di rifiuti importati nelle province turche.