Adele Chiello ha ottenuto una sentenza per la morte del figlio, una delle nove vittime della collisione nel porto del 2013. Ma la battaglia continua. Ora nel mirino ci sono il sistema di certificazione delle navi e la sicurezza dell’approdo

«Guardi che non è coraggio, è amore per mio figlio. Io allo Stato gliel’ho consegnato per la manina, me lo ha restituito dentro una cassetta di legno stipata nella stiva di un aereo». Adele Chiello Tusa parla per cinque ore di fila al telefono. Vuole spiegare quel che ha fatto per rompere “il sistema”, le poche lacrime e le tante urla, le camminate al Molo Giano, le facce alle udienze, le lampadine che le si sono accese, l’Italia che uccide sul posto di lavoro. Ci mescola «la musica che ti salva sempre», la morte del marito e Giuseppe che da piccolo le diceva: «Se non mangi, non mangio neanche io, se piangi piango anche io», e allora bisognava essere ancora più forti. E poi la rabbia nel vedere le divise alla camera ardente, il codice civile e il manuale di procedura penale piazzati sul tavolo di cucina.

«Lo scriva, lo scriva. Ho preso a bastonate le persone, ho alzato le mani, ho messo sottosopra scrivanie alla Capitaneria, ho urlato “ti ammazzo”. A un altro ho detto: “Ti conviene che ti fai condannare perché alla fine ti strozzo”. Prima ero calma, questo non era il mio temperamento». Il “prima” per lei finisce alle 23,05 del 7 maggio 2013, quando la motonave Jolly Nero della Ignazio Messina & C., durante la manovra per uscire dal porto, ha un’avaria al motore e dopo una serie di errori urta la banchina causando il crollo della torre piloti. In quattro vengono estratti vivi dalle macerie finite in mare.

Tra le nove vittime c’è il figlio di Adele, il trentenne sottocapo di seconda classe Giuseppe Tusa. Era nell’ascensore. Verrà estratto alle 14,45 il giorno dopo, proprio mentre sua madre, che lo credeva ricoverato per un incidente, arriva a Genova. «Quando lo vidi, coperto dal lenzuolo all’obitorio spuntava solo il viso, sembrava dormisse. Aveva i capelli bagnati, urlai che volevo un phon per asciugarli. Mi dettero un asciugamano», dice la donna. Aveva le mani rotte e le ossa fuori per aver scavato tra le macerie in acqua, lo vide solo quando riuscì a leggere l’autopsia e vedere i filmati del recupero. Mentre ancora lo cercavano, lo aveva chiamato al cellulare immaginandolo da solo in ospedale: «Lei ha mai sturato un lavandino? Io al telefono ho sentito quel rumore lì. Lo giuro e ce l’ho ancora dentro le orecchie».

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Le sue intuizioni e la sua tenacia portano la Procura di Genova ad aprire un nuovo processo, dopo le condanne definitive di tre membri dell’equipaggio e l’assoluzione della Messina, condannata a una sanzione amministrativa di un milione e mezzo di euro. Lo scorso 15 settembre il giudice Paolo Lepri ha condannato altre sette persone perché l’urto di una nave con la banchina era un «rischio che gli imputati dovevano e potevano prevedere»: sono l’ammiraglio ex comandante della Capitaneria di Genova Felicio Angrisano, l’ex commissario del Comitato autonomo portuale Fabio Capocaccia, l’ex presidente della sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici Ugo Tomasicchio, gli strutturisti Angelo Spaggiari e Mario Como, l’ingegnere Paolo Grimaldi e Giovanni Lettich della Corporazione Piloti. Mentre sono arrivati gli atti di appello, la sentenza ha “gemmato”, perché nel mirino ora ci sono il sistema di certificazioni delle navi e la sicurezza di tutto il porto di Genova.

Adele ha seguito tutte le udienze con la foto di Giuseppe in mano o prendendo appunti. Ma ha fatto scoppiare anche diverse bagarre. Come quando ha sentito l’autodifesa di Angrisano. «Se mi avessero detto che erano in pericolo, non li avrei fatti scendere immediatamente quei ragazzi?», ha sostenuto col giudice. «A quel punto mi sono alzata: Indegno! Non nominare più i figli nostri morti. La colpa è dei morti?».

Al numero di Giuseppe risponde lei, ha fatto recuperare la memoria dal telefono finito in acqua. Dice che è stato lui a “svegliarla”. Il vecchio pc, che lei non sapeva usare, l’ha acceso una notte e ha visto le immagini del crollo su YouTube, a un mese dalla tragedia: «Non mi avevano detto nulla per proteggermi. Ma io ho buttato le medicine e ho iniziato a vedere e leggere tutto perché mentre noi eravamo chiusi in Capitaneria, loro rilasciavano interviste ma si contraddicevano. Sentivo puzza».

Va subito a Genova per trovare una cartina del porto da studiare. A settembre rifiuta il modulo con la cifra in bianco con cui gli armatori propongono risarcimenti. Coinvolge i giornalisti. Chiede ai legali di inviarle ogni documento: ne leggerà più di duemila. È sfogliando le perizie sulla Jolly, il Registro Navale Italiano (Rina), e le certificazioni di sicurezza e nota che a firmare la classificazione della nave sia sempre la stessa persona. Piomba nell’ufficio del procuratore e quel nome finirà nelle indagini. Studia diritto della navigazione e il Testo unico per la sicurezza nel lavoro.

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Nel 2015, durante una puntata di Uno Mattina, intervistano Leopoldo Franco, un ingegnere e docente all’Università Roma Tre: dice che non esiste al mondo una torretta costruita sull’acqua, alta 54 metri e spessa 20 centimetri, con un cono interno per l’ascensore. Lo pensa anche Adele che lo cerca per conferirgli l’incarico di consulente. Per avere le carte necessarie alla sua relazione fa due esposti in procura e due diffide all’Autorità portuale. Sul suo telefono Giuseppe aveva il video di una nave da crociera che quella torretta la sfiorava: mancava una barriera di protezione.

Lei deposita memorie e denunce: ci sono anche i nomi e i cognomi di chi aveva permesso si lavorasse in quella costruzione. «Il pubblico ministero mi diceva che la torre era irrilevante ai fini processuali. Ricordo che scesi piangendo, ma non mi sono arresa e sugli scalini del Palazzo di Giustizia chiamai un quotidiano chiedendo di mettere quei nomi. Angrisano poi mi inviò una lettera: mi scrisse che ero devastata e che mancavo di rispetto alla memoria di mio figlio, la inviò dal Comando generale della Capitaneria, si deve vergognare», racconta Adele.

Ad agosto 2015 il gip Alessia Solombrino legge la sua opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero Walter Cotugno. A ottobre ordina un supplemento di indagini sulla torre, da effettuare entro otto mesi. A processo finiscono altri 12 imputati: progettisti, costruttori, i funzionari il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. La Capitaneria e i datori di lavoro delle vittime: la Corporazione Piloti, Società Rimorchiatori Riuniti, la Marina Militare.

Il 26 novembre scorso la Cassazione rende definitive le condanne per l’equipaggio della Jolly Nero ma dispone un nuovo appello per rideterminarne le pene. I legali degli imputati lo spiegano sostenendo che è stata riconosciuta la “corresponsabilità” emersa nel processo bis. «Abbiamo processato il comandante del porto più famoso del Mediterraneo e l’ingegnere capo più importante del Mediterraneo», spiega Alessandra Guarini, parte civile con gli avvocati delle figlie di Adele, Massimiliano Gabrielli e Cesare Bulgheroni. «L’ho conosciuta in tribunale a fine 2014. Mi è piaciuta come si muoveva. E dissi: lei sarà il mio avvocato», spiega Adele.

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Alessandra Guarini, già impegnata a difendere i familiari delle vittime nel caso giudiziario della Costa Concordia e adesso nella tragedia dell’Hotel Rigopiano, il disastro del Norman Atlantic e la morte del nocchiere Alessandro Nasta sulla Amerigo Vespucci, è “l’avvocata delle mamme”: «Non ho mai impedito a Adele di essere se stessa», dice: «Ci siamo intese, ci siamo sostenute e in aula eravamo spalla a spalla. Era preparatissima. Ed è stato un processo “altruista” perché è non è servito a lei o al figlio, ma a mettere a posto tante cose».

Come ad esempio ribadire che le norme nazionali in materia di sicurezza valgono non solo per i datori di lavoro privati, ma anche quelli pubblici e militari. Il giudice, nelle 343 pagine di motivazioni spiega che «una diversa ubicazione della torre avrebbe impedito l’urto e conseguentemente il crollo e le morti e i ferimenti», e sottolinea che «attitudine salvifica avrebbe potuto avere anche la realizzazione delle protezioni».

Il pm Walter Cotugno aveva chiesto un’informativa all’Autorità Portuale su altri edifici del porto antico costruiti sul ciglio delle banchine, la cui pericolosità è direttamente proporzionale alla grandezza di molte navi che attualmente transitano nel porto di Genova. L’Ammiraglio, «responsabile della sicurezza in porto e datore di lavoro», «avrebbe invece dovuto ricorrere alla più radicale misura consistente nell’immediato sgombero della Torre Piloti».

«La difficoltà di questi due processi è stata riuscire a gestirli con addosso le critiche di chi ci diceva che stavamo mettendo in dubbio la sicurezza del porto di Genova e quindi addirittura compromettendo l’economia della Liguria», spiega Guarini, poi aggiunge: «Abbiamo aperto una riflessione sull’importanza di tutelare chi lavora, dai militari della Marina a chiunque si trovi ad operare nel porto, inclusi i passeggeri delle navi da crociera».

«Il pubblico ministero mi ha porto pubblicamente le sue scuse», racconta Adele. «Gli ho detto: non mi parli del passato, adesso siamo qua. Apra il cassetto dove ci sono tutte le mie denunce. Siamo solo al primo grado, sono passati sette anni, io voglio vedere qualcosa prima di morire. Si è dimenticato di quelle certificazioni false?». Ride, raccontando le lacrime che le si sono sciolte e l’abbraccio dell’avvocato dopo la sentenza: «Non ero pazza».

C’è un video di quel momento. In questi anni ha avuto vicina l’associazione dei familiari della strage di Viareggio, “Il mondo che vorrei”, e ha girato l’Italia: «Per parlare con le persone. Dal Vajont alla Costa Concordia, a Ustica. Io non ho colori politici, a me interessa che chi sta seduto in alto lavori nell’interesse del cittadino».

Ha istituito il Trofeo Giuppy Black Dj, col nome d’arte di Giuseppe, militare ma anche noto dj. Dal suo computer ha estratto pezzi inediti con cui ha creato un disco. L’ha donato ai partecipanti di una delle tante manifestazioni per ricordarlo. «Questa sentenza non è una sentenza sua o mia, perché i morti non hanno più bisogno di sentenze, è per i figli di questo Paese che crolla. Bisogna credere nella verità e non arrendersi mai. Dopo che ti ammazzano un figlio, di cosa devi avere paura? Lo scriva, mi raccomando: lui era il sole e non ha sprecato neanche un istante della sua vita».