Respiro corto, stanchezza, paura e stress. A Campiglia, vicino Livorno, il centro clinico pubblico che cura gli effetti del virus

«Ho iniziato con l’Hiv negli anni ’80 e ho finito la mia carriera con una pandemia. Ma questa emergenza è peggiore. Per molti operatori è stata una tragedia, allora non sapevamo il tipo di contagio. Ma in fondo col sangue noi ci lavoriamo, col respiro, invece, non è facile». Anna Laura Addari è infermiera e andrà in pensione alla fine di settembre, ma dice che tanto verrà lo stesso a sostenere i pazienti. E lo ripete, tra i tigli della terrazza del vecchio pronto soccorso dove è uscita a vedere le albe e i tramonti per 40 anni: «Lo devono sapere tutti cosa fa il Covid-19». 
Non è come le altre malattie, questa «restringe» gli uomini. Compreso il loro orgoglio di signoreggiare nel mondo perché è l’ultima e la più mutevole delle malattie nell’epoca dell’invincibilità. Il Sars-Cov-2 secca gli alveoli dei polmoni, rimpicciolisce la gabbia toracica, annulla il diaframma. Colpisce i vasi, dunque danneggia gli organi e indebolisce le terminazioni nervose e i muscoli: non si sta più in piedi, non si muovono le mani, la testa non regge il suo peso. E poi ci sono i danni di pronazione, casco, immobilità: anemie, corpo prosciugato, trachea rotta. Nella prima ondata molte pazienti perdevano i capelli. Nella seconda sembra prevalere la stanchezza cronica: memoria debole, il mondo è ovattato da una nebbia indefinita. E poi c’è la «paura»: il Covid-19 produce una forte sindrome da stress post traumatico. 
A Campiglia Marittima, Livorno, al piccolo ex ospedale costruito nel 1871 tra la brezza del mare e le rondini, sono stati tra i primi a osservare, valutare e mettere a punto cure per i post Covid-19, intuendo il rischio che correvano i pazienti appena usciti dai reparti o da forme medio-gravi della malattia: portarne per sempre addosso la «firma». Calcata, leggibilissima.


Ispirati dalla visione della riabilitazione neurocognitiva come «ri-apprendimento» del neurologo Carlo Cesare Perfetti, scomparso di recente, per il quale mente e corpo sono un rimescolio indivisibile, il 6 aprile 2020 alle 10 hanno accolto il primo paziente, ancora positivo. Ad oggi l’équipe ne ha rimessi in piedi 137, il più giovane di 31 anni. Alcuni sono in tutti i racconti delle 3 logopediste, i 5 medici, i 12 fisioterapisti, le 8 infermiere: il pittore che non muoveva più le mani tornato a casa guidando la sua auto. Il manager che non voleva ricoverarsi perché doveva fare video-conferenze ma che poi ha «cambiato vita», per dedicarsi «a quel che conta davvero». O la giovane dottoressa che non parlava più ma che durante i quasi due mesi di ricovero ha sostenuto un concorso pubblico, vincendolo. Perché la riabilitazione post Covid-19 è importante quanto la cura, se non di più: non basta essere vivi, la vita devi re-imparare a viverla.

LUCARONI_29__DSC8675

Attraverso segnalazioni di medici, reparti di medicina e terapie intensive Covid-19, scouting diretto, e in qualche caso il passaparola, i pazienti ora arrivano negativizzati. Fisiatri, fisioterapisti, terapisti occupazionali e logopedisti intervengono in base a scale che valutano movimento, sensibilità, funzione respiratoria, quadro cognitivo, deglutizione, tolleranza allo sforzo e qualità di vita. E il quadro emotivo- psicologico: molti arrivano soffrendo di insonnia, ansia, incubi terrificanti, stati di agitazione, depressione: c’è chi ha saputo una volta arrivato qui che aveva perso il coniuge, un genitore, un amico. «Il rapporto umano non può essere sostituito dalle macchine, la riabilitazione è questo, è fatta da persone per persone che si affidano, vanno accudite, rassicurate. Se sei un professionista e basta non arrivi da nessuna parte: devono buttare fuori quello che hanno vissuto, uno shock, come vivere un disastro naturale». Francesca Mussini è una fisioterapista esperta di riabilitazione respiratoria, a Campiglia lavora dal 2003. Ha iniziato a Pisa, con i malati di Sla. Ha modulato su ognuno tecniche e manovre di respirazione toracico-polmonare, unite alla maschera Pep, utilizzata per le fibrosi cistiche modificata per i post-Covid-19: «Ci ho aggiunto una terza resistenza inspiratoria, che allena il diaframma, il muscolo che fa espandere le basi polmonari, quelle che ricevono più ossigeno. La respirazione da Covid-19 è rapida e superficiale, è il respiro della paura. Bisogna rendere di nuovo elastici i polmoni», spiega. La fisiatra Lucia Briscese invece ha approfondito gli aspetti carenziali, come quello della vitamina D, già noti nelle patologie respiratore. «Siamo sarti, e partiamo dalla stoffa. Se non ricostruiamo muscolo, osso e nervo su cui agire con la riabilitazione, non potremmo farla», dice. Anemie, perdite di peso fino ai 30 chili, danni da terapie cortisoniche, antivirali e antibiotiche, diabete slatentizzato, pancreas danneggiato, stati infiammatori gravi: «Ci siamo accorti subito che la quasi totalità dei pazienti aveva carenza grave di vitamina D, che ha recettori su gran parte dell’organismo: cervello, ghiandola mammaria, prostata, vie respiratorie superiori e sistema immunitario, in cui in particolare stimola la produzione di citochine antinfiammatorie».


Il Centro di Campiglia Marittima, l’ex Ospedale della Maremma, che curava la malaria degli operai delle bonifiche, ha rischiato più volte e alla fine è stato chiuso nel 1992 dalla riforma dell’allora ministro della Salute De Lorenzo. I campigliesi hanno combattuto perché rimanesse vivo. Tra questi c’era Antonietta Nannini, oggi capo del servizio pulizie: andò casa per casa a raccogliere le firme. Prima della riorganizzazione Covid-19, l’edificio è stato RSA, punto prelievi e centro di riabilitazione. Qui ha lavorato anche la madre di Antonietta. La mattina sveglia personalmente i pazienti con i Rolling Stones, “O surdato ‘nnammurato”, “Volare”: «Metto spesso “Attenti al Lupo” di Lucio Dalla, perché ha ritmo perfetto e ognuno si muove come può». Il dottor Marco Bresci, coordinatore del progetto Campiglia Covid-19, è il primo a chiamarli tutti affettuosamente «bimbi».

«La coppia cinese ricoverata allo Spallanziani non ne usciva e in più andò in riabilitazione. Mi si accese una lampadina. Questo era già un centro di riabilitazione, ed essendo servizio pubblico, flessibile, abbiamo messo insieme tutte le competenze necessarie. Non c’era letteratura scientifica, trovammo solo uno studio un po’ povero e in cinese. Non si sapevano le conseguenze del Covid-19: l’attenzione era focalizzata su decessi, emergenza, rianimazione, la gente rientrava a casa o rimaneva nei reparti in attesa», spiega. Grazie e insieme a Cristina Laddaga, responsabile Riabilitazione area sud dell’Azienda Usl Toscana Nord-Ovest, a marzo 2020 il progetto era già in piedi, mentre in gran parte d’Italia specialisti e reparti venivano smobilitati per curare la «fase acuta». Spiega Laddaga: «Non abbiamo voluto cambiare casacca. È stato grazie ad una direzione aziendale illuminata e perché siamo il servizio sanitario pubblico. Molto negli anni è stato svenduto al privato. La riabilitazione come la diagnostica. Ma il privato va in crisi sull’emergenza, perché è rigido e guarda al budget. Ecco perché le riabilitazioni private non si sono subito messe a disposizione durante l’emergenza».


Lo scorso 8 maggio il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato lo stanziamento nel Dl Sostegni bis di 50 milioni di euro perché il servizio sanitario nazionale «prenda in carico gratuitamente, con esami diagnostici e terapie, tutti i pazienti maggiormente colpiti dal virus anche dopo le dimissioni dalla struttura ospedaliera». Attraverso i follow-up invece verranno raccolti dati scientifici secondo il Protocollo sperimentale nazionale di monitoraggio. Una definizione clinica condivisa di post-Covid-19 e long-Covid-19 non esiste. In Italia sarebbero 200 mila le persone che soffrono di un qualche disturbo di questa sindrome. E l’Oms segnala che sono spesso stigmatizzate, poco informate o hanno dovuto lottare per ricevere una diagnosi.


«Ricordo una quarantenne, l’ho ricoverata io, dieci tamponi sempre positivi. Si è negativizzata dopo due settimane, perdeva i capelli a ciocche, era anemica e aveva perso tanto peso. A casa non ha continuato a fare gli esercizi e le cicatrici che aveva nei polmoni si sono calcificate», racconta Anna Laura, spiegando che continuerà a ballare e cantare con Antonietta e i pazienti. «Non li sopporto i negazionisti. Noi vediamo i danni che fa il Covid-19. E gli infermieri che non vogliono vaccinarsi non sono veramente dentro la sanità, dentro questo lavoro, che è avere cura degli esseri umani».