Intervista

«Il revenge porn è la trasposizione digitale della cultura dello stupro»

di Patrizio Ruviglioni   19 luglio 2021

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Il fenomeno dei video e delle foto intime condivise contro la volontà delle donne alimenta un vero mercato digitale. «Questi gruppi crescono come recrudescenza misogina, forma di resistenza conservatrice alle nuova libertà delle donne». Parlano le autrici del saggio “Donne tutte puttane”

Donne tutte puttane, come il gruppo WhatsApp in cui una decina di giovani si scambiavano foto e video intimi di ragazze, ovviamente senza il loro permesso e a volte scattate proprio a loro insaputa. Il primo scoperto in Italia, quello considerato simbolo ed epifania mediatica del fenomeno che, per semplificazione, è chiamato revenge porn. O “Donne tutte puttane” come il saggio che le ricercatrici Silvia Semenzin e Lucia Bainotti – specializzate in sociologia, consumi digitali e questioni di all'Università di Amsterdam – hanno da poco pubblicato per Durango, a indagare cause sociali e culturali dietro la condivisione non consensuale di materiale privato. Fra online e offline, fra derive, molestie e maschilismo. Su chat di Telegram con migliaia di partecipanti, gruppi chiusi, archivi a pagamento con tanto di categorie e vittime a volte minorenni. Perché non è solo vendetta, anzi quasi mai.

«Il titolo del libro», raccontano le autrici all'Espresso, «è provocatorio. Ci siamo appropriate del termine, che in realtà si riferisce a donne che manifestano liberamente la sessualità». Poi, aggiunge Semenzin, nella descrizione del fenomeno da parte dei media «si è cercato lo scandalo», sostenendo che «i partecipanti alle altre centinaia di chat simili fossero tutti pedofili, depravati mossi da motivi personali».

Piuttosto «ne rappresentano una minima parte, specie in gruppi da 100mila iscritti; alla base semmai ci sono cause sociali e culturali». Tipo? «Stereotipi di genere, tabù che accompagnano il corpo femminile da sempre, tipo l'alone di pudicizia e "santità"», spiega Bainotti parlando di un «doppio standard figlio della cultura patriarcale». Meglio: «L'uomo è deputato al piacere e alla conquista; la donna alla sottomissione e alla procreazione, ergo "puttana" non appena esce dallo schema. Pensiamo alla maestra di Torino. Il vantarsi della conquista e la vendetta sono "normali" in una società che le ha rese parte della maschilità. E ciò alimenta altri stereotipi: "Non sei un vero uomo se..."; in molti gruppi non puoi esimerti dal farlo, insomma. In ogni caso, quando un uomo agisce per vendetta come nel caso Cantone, parte da qui per rovinare la reputazione altrui».

Il punto è che, dicono, nei gruppi in Rete i partecipanti – spesso giovanissimi curiosi, «di solito dai 16 ai 30 anni», a volte over 40 – più che rivalsa personale cercano in maniera «forsennata» materiale di gente che magari neanche conosco. Come regolare pornografia, ignorando che manca il consenso. «Poi», precisa Semenzin, «in alcune chat si organizzano per rintracciare le vittime, molestandole con foto non richieste e minacce. O si usano deepfake. Dipende sempre di caso in caso. Ed è tutta una trasposizione digitale della cultura dello stupro e della violenza di genere, tanto che a volte si condividono nome e cognome delle donne prese di mira. Ma proprio per questo "revenge porn" è un'espressione limitante, che omette queste declinazioni diffuse molto più della vendetta stessa».

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Declinazioni che, secondo loro, hanno lo stesso radici sociali, patriarcali. Per Bainotti infatti, solo «l'andare oltre il consenso è già un modo per rimarcare potere, l'essere "uomini". Questo desiderio di dominio attraversa l'oggettificazione della donna in chi lo perpetra è consapevole, eccome. Sulle eventuali conseguenze legali invece c'è ignoranza specie fra i più piccoli, che pensano di partecipare a un gioco». E in generale, comunque, le ricercatrici concordano che – all'interno di queste chat – da un lato ci si mette in competizione per riconoscersi come «alfa», mentre dall'altro si agisce «uniti» riempiendo insieme di insulti la vittima di turno – «sono tipiche dinamiche del branco».

Poi le donne: come si spiega la loro presenza – seppur minima – in questi gruppi? «Dal fatto che parliamo di un problema culturale», dice Semenzin, «cioè che travalica i generi. Il maschilismo riguarda entrambi i sessi, purtroppo. E alcune ragazze giudicano le altre secondo questi canoni. Il contesto determina tutto, sempre». Tant'è che – proprio perché è questione di background e contesto – è quasi impossibile trovare ragazze che condividano materiale intimo dei propri compagni con le amiche: «Non siamo "socializzate" a questo. Piuttosto, sono più frequenti i casi di ricatto vero e proprio, magari dopo incontri in cam. Ma agli uomini manca sempre lo stigma sociale conseguente. Non sono "troie", al massimo "sfigati". Ciò limita il fenomeno alla base».

E se qualcosa, finalmente, sta cambiando almeno nel rapporto fra i sessi, nella parità, per Bainotti «questi gruppi crescono proprio come recrudescenza misogina, forma di resistenza conservatrice alle nuova libertà delle donne. Seguendo una visione antagonistica fra i generi, infatti, col revenge porn i maschi rimarcano il loro predominio. Come fanno anche su Reddit, per esempio, e nella cosiddetta manosphere, cioè luoghi di dibattito online in cui si convincono di essere loro le vittime della situazione».

Al di là di questo, comunque, la popolarità di chat in cui si perpetra violenza di genere dipende anche dagli ambienti digitali e dal nostro rapporto con la stessa tecnologia. Il momento non è casuale. Infatti Semenzin ammette che «già con gli MMS c'erano comportamenti simili, ma all'epoca le foto giravano in contesti ridotti, mentre coi social la diffusione è amplificata». Tradotto: il revenge porn non nasce oggi, «ma cresce con l'incontro di stereotipi antichi e nuove piattaforme». Ovvero: i social («all'inizio i gruppi erano su Facebook, che poi ha inasprito la policy costringendo agli iscritti alla migrazione») e in particolare il Telegram, che per lei «quasi favoreggia per queste pratiche». Nel senso? «Non collabora con le autorità se non per terrorismo o pedopornografia; nelle sue chat possono segnarsi in migliaia, sono vere community; e l'anonimato è relativamente garantito, visto che chiede solo il numero di telefono per l'iscrizione». Non a caso Bainotti aggiunge che, grazie a queste regole, fra i partecipanti prevale un senso di impunità che, insieme all'illusione «perpetrata da altri stereotipi per cui sia solo un innocente gioco da maschi», alimenta il fenomeno.

Riguardo alla sua ampiezza, però, non si hanno dati sufficienti, per quanto arrivino segnalazioni da Stati Uniti, Gran Bretagna, Corea del Sud, sudest asiatico. «Ma il problema dell'Italia è che a tratti normalizza le discriminazioni», conclude Semenzin. «È evidente, persino l'informazione è talmente schierata in questa direzione, magari anche in maniera inconsapevole, che alla fine le vittime si sentono colpevoli. Spesso nell'opinione pubblica si minimizza il tutto dicendo che è cosa "da maschi". Ma se la metà delle donne che hanno subito questa violenza pensa al suicidio, un motivo ci sarà». Anche per questo – scrivono alla fine del libro – «una legge non basta», e «inasprire le pene non previene, al più punisce il reato com'è giusto che sia».

Semmai servono: educazione sessuale e affettiva, giusta narrazione da parte dei media, attenzione maggiore sulla dimensione online della violenza. E un «patto fra generi basato sul dialogo» che metta fine al maschilismo. Quello per cui «le donne libere sono tutte "puttane"».