Condividere, sapere senza creare poteri. Fu uno degli slogan della rete dei movimenti che anticipò i social, cambiando il modo di fare informazione come atto politico. La consacrazione a Genova. Poi Internet è diventato di proprietà

Nell’era dei social talvolta dimentichiamo che non è stato sempre così. C’è stato un momento nella nostra recente storia dell’informazione durante la quale «fare informazione» era un atto politico rilevante, appoggiato a una visione del mondo nella quale la tecnologia rivestiva un ruolo fondamentale. Informare e «programmare», sapere fare informazione e sapere usare anche i software è oggi uno dei principali requisiti in molte scuole di giornalismo o quanto meno in molte redazioni: saper spedire o ricevere una mail criptata, sapere usare «tool» in grado di garantire anonimato e sicurezza alle proprie fonti e alle informazioni.

Se Genova ha rappresentato l’acme del «movimento dei movimenti», in quell’estate del 2001 anche tutte le riflessioni nate in ambiti alternativi (centri sociali, hacklab, mailing list, gruppetti nerd) trovarono un loro momento di sintesi, unendo istanze nate a metà degli anni ‘80 con le nuove possibilità fornite dal world wide web. L’esempio più significativo, che ha raccolto almeno quindici anni di riflessioni e pratiche sull’utilizzo della tecnologia e del sistema informativo, fu senza dubbio Indymedia. In un libro appena uscito, “Millennium bug, una storia corale di Indymedia Italia” (Alegre, 2021), c’è il racconto di come nacque e quali erano le basi teoriche e tecniche (a ribadire che anche la tecnologia è politica) di uno snodo informativo capace di costituirsi come una sorta di social ante litteram, pur con caratteristiche contrarie a quelle delle odierne piattaforme.

 


Indymedia, intanto, nasce sull’onda lunga dei movimenti no global: «Già da diversi anni piccole e grandi manifestazioni venivano organizzate localmente in occasione di incontri politici internazionali e, fin da prima del 1995, la rete internet è stata usata, soprattutto attraverso le Bbs (Bulletin Board System), la posta elettronica e le mailing list, per discutere, diffondere informazioni, coordinare e organizzare iniziative.

Millennium Bug (Alegre, 2021) è il racconto dell'esperienza di Indymedia e del percorso che portò alla creazione di una rete di informazione e di dibattito che precedette l'avvento dei social e con una forte impronta politica e libertaria

Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso il web era già abbastanza diffuso e il terreno quindi più che fertile per far nascere il progetto di un mezzo di comunicazione indipendente. Il successo di Indymedia è quindi più che annunciato, anche se i mass media ufficiali (soprattutto in Italia) ci metteranno qualche anno a rendersene conto». Quel mondo di Bbs, mailing list e successivamente hacklab non mancava certo in Italia: gli anni ’80 erano già popolati dalle attività di Primo Moroni alla Calusca City Lights a Milano (una delle espressioni coniate da Moroni, «condividere sapere senza creare poteri» sarà utilizzata anche in futuro dai vari nodi della rete di movimento italiana), per arrivare alla rivista Decoder, solo per citarne alcuni. Un movimento che si muoveva intorno al tentativo di ritagliare all’interno della rete spazi di libertà, Taz (temporary autonomous zone) virtuali o, come è ancora oggi scritto su Ecn, uno dei primi «mondi» alternativi creati online dal movimento, «zone autonome». Le linee direttrici erano piuttosto chiare: free software (che non significa gratis, ma «libero» appunto) e open source (prima che venisse risucchiato dalle logiche più commerciali), orizzontalità e auto organizzazione, insieme a un discorso formativo basato tanto sull’utilizzo del sistema operativo libero Linux, quanto di autodifesa informatica, sicurezza, crittografia.

Una tendenza che finirà poi nei movimenti degli hackmeeting che in alcuni casi daranno vita ad esperienze politiche reali, come nel caso di ReLoad a Milano, un’occupazione che poneva l’hacking alla stregua di un meccanismo politico (reality hacking), ovvero come necessità di «aprire» il mondo come veniva presentato, provando a riprogrammarlo per necessità più etiche e non legate alla sola commercializzazione (esattamente quanto fanno gli hacker, quasi sempre confusi nella grammatica giornalistica con i pirati informatici che agiscono quasi per proprio tornaconto personale o su mandato di qualche ente commerciale). Si tratta di esperimenti ed esperienze nelle quali la radicalità della critica tecnologica costituisce ancora oggi un punto di riferimento (da quei progetti nacque ad esempio il gruppo di ricerca Ippolita, ancora oggi un faro nella lettura degli eventi tecnologici mondiali) e che si inserirono nel contesto indirizzato a creare un’altra forma di informazione attraverso la messa a disposizioni di tutti gli strumenti tecnologici necessari (come nel caso di A/I e tanti altri progetti di tecnologica libera e condivisa). Tutti questi ragionamenti avevano trovato in Indymedia una loro concretizzazione: il sito era composto da «una Home Page divisa in tre colonne con al centro quella delle Features, vale a dire i testi discussi in gruppo su una mailing list, e sulla destra il Newswire, ovvero l’elenco aggiornato in tempo reale di tutti i contributi pubblicati dagli utenti, nella colonna di sinistra c’è la lunga lista che elenca gli altri nodi della rete. Ogni nodo locale era autonomo nel funzionamento, ma allo stesso tempo connesso e coinvolto nella rete internazionale. Chiunque poteva aprire un nuovo nodo territoriale, iscrivendosi a una lista chiamata imc-process e seguendo un processo di avvicinamento e formazione collaborativa sulle dinamiche principali del sito. Infatti, sebbene ogni nodo locale potesse organizzare alcuni dettagli in maniera diversa (le procedure di partecipazione alle mailing list per esempio, o il modo in cui il Newswire veniva organizzato), tutti i nodi, nel partecipare a questo “process”, venivano organizzati attorno ai principi dell’open publishing e dell’orizzontalità».


L’anonimato e la libertà per chiunque di pubblicare quanto voleva fu una grande sfida: la speranza, non sempre realizzata, era che a sproloqui potessero seguire invece dibattiti e condivisioni di informazioni. La scrittura delle cosiddette «features» inoltre (le notizie che i «nodi» fornivano) era un esempio di quello che oggi viene definito «fact checking»: non è un caso che dall’esperienza di Indymedia uscirono poi molte persone che oggi operano nel settore informativo nazionale. A Genova Indymedia ebbe la sua consacrazione: «In quelle giornate le strade di Genova si riempirono di attivisti armati di telecamere e macchinette fotografiche, spesso digitali. Senza uno strumento di diffusione aperto come Indymedia, però, le informazioni raccolte nelle strade di Genova sarebbero state di fatto gestite solo dalle grandi redazioni o destinate agli archivi individuali. Un sito web aperto e senza filtri, che pubblicava materiale in continuazione, ha permesso alle testimonianze di quei giorni di arrivare dappertutto e ha costretto la comunicazione ufficiale a fare i conti con un nuovo modo di fare informazione».


Indy andrà avanti alcuni anni, altre realtà proseguiranno alcuni discorsi radicali nella lettura dei fatti tecnologici e legati al destino e alla vita della rete. Ma a cambiare la percezione generale dell’utilizzo della rete non furono solo i vari social (Facebook venne lanciato nel 2004), ma fu una sorta di rielaborazione in senso conservatore della rete in cui ha finito per prevalere il suo senso «proprietario», snaturando completamente il punto di partenza, ovvero creare zone di libertà all’interno di una rete mai mitizzata dai movimenti, ma percepita come un divenire politico e «reale», per niente simulacro, di cui per altro già si era colta la grande capacità multi identitaria. Sembra preistoria se paragonato a chi poi divenne il «partito della Rete» e utilizzò tutta la retorica spicciola della libertà del web, per poi inchiodarla a un processo top down, gestito da un sito proprietario: un processo di totale detonazione e svilimento in cui l’orizzontalità, quella sì, diventa un feticcio/simulacro sbandierato per riproporre schemi nei quali la tecnologia anziché liberatoria, rimane un sistema di dominio.