Quel macigno non può e non deve diventare la pietra che tappa per sempre ogni possibilità di cambiamento. Deve anzi provare a essere la leva che spalanca una porta, o almeno rende possibile un sentiero di futuro

Avevo 25 anni e i capelli blu nel luglio del 2001.

Me li ero colorati per festeggiare l’ultimo esame all’università che il caso aveva maledettamente fatto cadere di venerdì 20 luglio, nel bel mezzo delle manifestazioni di Genova.

A Radio Popolare da mesi aspettavamo quell’appuntamento, e ne raccontavamo le tappe di avvicinamento.

Che tirasse un’ariaccia si era capito da tempo: alla ricchezza appassionata del Social forum di Porto Alegre, molto presto era subentrata la repressione delle manifestazioni a Napoli, in Canada, a Goteborg.

Le ultime settimane poi erano state portatrici di cattivi presagi: c’erano gli strani pacchi bomba recapitati da nord a sud d’Italia, c’era l’allestimento della “zona rossa”, che faceva da controcanto ai pezzi dei principali quotidiani italiani che avvaloravano come nulla fosse la tesi dei manifestanti pronti a lanciare palloncini pieni di sangue infetto. Una velina pubblicata in prima pagina che non faceva né sorridere né storcere il naso, faceva invece paura. Perché non c’era davvero nulla da ridere in quel che si andava preparando in quei giorni.

Il blocco nero avanzava minaccioso nell’evocazione cupa di una profezia destinata ad autoavverarsi.

In radio avevamo capito che sarebbero state giornate difficilissime. Quello che non potevamo immaginare è che alla fine uno di noi ne cadesse vittima.

“E’ morto uno di noi”, dissi proprio così ai miei quando la notizia dell’omicidio di Carlo Giuliani mi sorprese a Roma, con il biglietto del treno per Genova in tasca. Loro che non volevano lasciarmi andare, e io che alla fine partii, col mio carico di rabbia e di proposte, da mescolare al flusso di quella moltitudine: la giustizia ambientale, la lotta alla povertà, la libertà di movimento, la pace.

“Un mondo diverso possibile”.

Non presi botte e manganellate solo perché fui fortunata a Genova quel 21 luglio. Ma fu per tutti noi così: il caso poteva portarti in un pezzo di corteo caricato dalla violenza della polizia, oppure semplicemente farti vivere le cariche di risulta.

A me andò che alla fine del percorso non ci arrivai mai, corsi tutto il tempo a ritroso, per scappare dalla polizia, con gli occhi che bruciavano per i lacrimogeni.

“Pronto, ci stanno assaltando. Chi vi sta assaltando? La polizia”, disse quella notte ai microfoni della mia radio un’attivista che raccontò in diretta l’inizio del massacro della Diaz. Parole che pesano come un macigno oggi che, a distanza di 20 anni, sono una consigliera regionale, un pezzo dello “Stato”, che in quel luglio del 2001 vide lo Stato picchiare, torturare, reprimere, uccidere.

E’ indubbio che esista una Generazione Genova segnata da quei fatti, è altrettanto necessario per chi come me è impegnato dentro le istituzioni essere oggi un filo che riannodi le ragioni e le giornate di 20 anni fa. Quel macigno non può e non deve diventare la pietra che tappa per sempre ogni possibilità di cambiamento. Deve anzi provare ad essere la leva che spalanca una porta, o almeno rende possibile un sentiero di futuro.

E’ giusto e necessario dirlo e provare a farlo oggi. Perché le ragioni che animavano le piazze di Genova prima della violenza e del sangue sono tali anche oggi, una volta di più dopo la pandemia.

In quel 2001 la politica, la mia parte politica, in larghissima parte questa cosa non la capì. E ci lasciò soli di fronte al massacro. E per la verità non la capì neppure dieci anni dopo, quando ebbe una seconda chance visto il risultato del referendum sull’acqua del 2011: 27 milioni di italiani si misero in fila per votare nonostante tutto. E ancora una volta uscirono delusi.

Il centrosinistra italiano mancò entrambi quegli appuntamenti e finì per consegnare quelle istanze al populismo del movimento Cinque stelle, oggi in crisi anche lui.

Ma nessuno di noi andò a Genova per amministrare l’esistente. Tutti avevamo in mente che quella chiamata a un mondo migliore fosse davvero necessario poi metterla a terra. Oggi lo è più che mai. Da dove ricominciare allora? Dove provare a riannodare i fili? Non tutto è perduto, non tutto è finito nel buco nero di Genova.

I ragazzi e le ragazze dei Fridays For Future che si battono per il futuro del pianeta, le femministe che portano in piazza la loro battaglia contro la violenza e allo stesso tempo contro la precarietà delle vite, il movimento per i beni comuni che costruisce un paradigma diverso da quello della proprietà privata o dello Stato padrone, i nuovi italiani che emergono con la loro richiesta di cittadinanza.

Tutto questo c’è, vive nel Paese, nella società, nelle nostre città, aspettando solo che ci sia qualcuno in grado di interpretare queste istanze, non per forza cominciando da un contenitore, ma magari dentro le assemblee legislative, nei consigli municipali, dentro l’incontro tra una nuova classe dirigente e le energie sociali che si muovono accanto alle reti civiche nel mondo post-pandemico. La strada è difficile, ma non impossibile: perché qualcuno l’ha già tracciata, venti anni fa, sotto le cariche e nel sangue.

Avevo 25 anni e i capelli blu nel luglio del 2001, e non arrivai mai alla fine del corteo del sabato spezzato dalla polizia. Solo mesi dopo conobbi un ragazzo, era nell’altra metà della manifestazione, in mezzo alle tute bianche. Il primo viaggio insieme lo facemmo a Genova, un anno dopo, portammo fiori rossi a piazza Alimonda.

Oggi nostro figlio ha 18 anni, è affacciato sulla vita adulta con l’entusiasmo e le energie di quell’età. Lo aspetta un mondo ingiusto, diseguale, precario.

Nelle nostre mani restano i nodi da sciogliere.
Lo dobbiamo a lui, a loro. Alla felicità dei ventenni di oggi.