Mafia

Cesare Terranova, il giudice solo che provò a fermare i Corleonesi

di Enrico Bellavia   24 settembre 2021

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Il 25 settembre di 42 anni fa Cosa nostra assassinò il magistrato che aveva iniziato a indagare su Liggio, Riina e Provenzano già negli anni Sessanta. La sua storia, le sue amarezze e il suo isolamento, permettono di rileggere cinquant’anni di vita repubblicana sotto ipoteca criminale. Tra patti e ricatti. Un film e un libro per ricordarlo

Potevano fermarli prima. Agli albori della loro carriera criminale, quando la stella di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina, ucciso il medico boss Michele Navarra, “u’ patri nostru”, iniziò a brillare. Al fuoco dei mitra, al piombo delle lupare, nel rosso sangue dei morti. Quando l’impostura di una Corleone asservita, omertosa, silente e complice, come l’intera Sicilia, iniziò a consolidarsi. E quel grumo di case sotto Rocca Busambra diventò sinonimo di mafia. Incurante dei tanti, i ribelli li chiamavano, che avevano detto di no. Si perpetuò così una narrazione che consegnò all’altare degli eroi le spoglie di magistrati, carabinieri, poliziotti fermati al fronte di una guerra che, puntualmente, nelle retrovie, qualcuno, trescando con il nemico, si incaricava di rendere vana.

 

Ricordarli come eroi e non come vittime del dovere serviva per il resto a sorvolare su chi il proprio dovere lo aveva tradito. C’era un uomo che aveva capito tutto. Lo aveva messo per iscritto nelle sue istruttorie e aveva provato a fermare il triumvirato corleonese ben prima della grande razzia. Si chiamava Cesare Terranova. Fu lui a preconizzare, inascoltato, la trasformazione della mafia corleonese in ceto dominante, a intuirne e a documentarne i rapporti americani, il vincolo di interessi e minacce che avrebbe fatto di quei tre i signori incontrastati di Cosa nostra, capaci di tenere banco per quasi mezzo secolo costellato di bombe, patti e ricatti nella prateria delle loro scorribande che era tutta la Penisola, da Milano a Palermo. Con una «forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni», scrisse.

 

Nel centenario della nascita del giudice, si è appena celebrato il 42esimo anniversario del suo assassinio, il 25 settembre del 1979. Sei colpi di calibro 9, 357 Magnum e Winchester 62 martoriarono il corpo al volante della sua 131 diventata un bersaglio fin troppo facile per il meglio su piazza dei sicari di Cosa nostra. Otto colpi li contarono sul maresciallo Lenin Mancuso che gli sedeva accanto e che si era gettato, pistola in pugno, sul giudice, nel tentativo impossibile di proteggerlo e rispondere al fuoco, tra via Rutelli e via De Amicis, in uno dei lati del quadrato in cui si svolge buona parte del mattatoio palermitano. Lenin Mancuso, poliziotto calabrese dal nome bolscevico, non era soltanto l’agente di scorta ma la sua ombra, roccioso e testardo proprio come quell’altro. Il partner delle investigazioni impossibili, cacciatore di Liggio e dei suoi gregari, al fianco del giudice.

 

Terranova era un montanaro di Sicilia, nato a Petralia Sottana, nelle Madonie. Cresciuto nelle stesse campagne dove la mafia, nel 1948, aveva ucciso il bracciante socialista e sindacalista Epifanio Li Puma. Si era fatto le ossa in guerra, soldato ma antifascista, poi prigioniero, quindi studente fuori corso per necessità e finalmente magistrato, figlio di magistrato. A inanellare encomi nel Messinese prima di arrivare sul versante occidentale dell’Isola a occuparsi della mafia che dal dopoguerra agli anni Sessanta aveva già compiuto il balzo diventando classe dirigente. Con le tasche piene dei soldi della droga, Cosa nostra si industriava per cambiare la faccia dell’Isola. Una devastante colata di cemento stravolgeva con il tessuto urbano anche quello sociale.

 

Da procuratore di Marsala, nel posto che sarà di Paolo Borsellino, con l’inseparabile Mancuso, Terranova risolve il giallo della scomparsa di tre bambine, uccise da Michele Vinci, lo zio di una di loro. Poi parlamentare per due legislature, maggio 1972-giugno 1979, indipendente di sinistra, in tandem con Pio La Torre, futuro segretario regionale del Pci che lo avrebbe seguito nell’identico destino tre anni più tardi. Insieme firmeranno la famosa “Relazione di minoranza” dove per la prima volta si facevano i nomi e i cognomi, dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia. Terranova di nuovo magistrato, consigliere istruttore, da fermare a ogni costo, lui che era stato faccia a faccia con Liggio due volte, che era riuscito a farlo condannare per Navarra e che dagli insuccessi precedenti aveva tratto la determinazione per assestare il colpo decisivo ai corleonesi e ai loro complici in grisaglia ministeriale. Su Terranova e Mancuso, su quello che hanno fatto, sul perché siano stati uccisi, lavora da anni Pasquale Scimeca, regista e sceneggiatore siciliano, tanto rigoroso quanto non allineato, che si prepara a realizzare un film da una sceneggiatura scritta con Attilio Bolzoni, in contemporanea con un libro che accompagna il film.

 

È il romanzo nero d’Italia. La storia di un magistrato e delle sue amarezze. Ma è soprattutto la storia del grande intrigo, del «peccato originale», come lo chiama Scimeca, che non ha mai smesso di condizionare la vita repubblicana. Riallacciandosi a un filone di analisi che parte dalle ricostruzioni giornalistiche di Pietro Zullino, Marco Nese, Silvestro Prestifilippo, passa per la commissione antimafia, riprende tesi di Enrico Deaglio e le rivelazioni di Leonardo Messina del 1992, ma anche i ricordi dei nipoti di Terranova, Francesca e Vincenzo (anche lui magistrato presso il tribunale di Palermo), Scimeca giunge alla conclusione che Liggio deve la sua prolungata fortuna alla custodia di un segreto. È il patto inconfessabile tra notabili e mafia per la strage di contadini, il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra e per l’uccisione, tre anni dopo, del bandito Salvatore Giuliano, l’assassino capopopolo che si era messo in testa di essere una specie di Robin Hood e al quale avevano fatto dire che la Sicilia sarebbe stata con lui il 49esimo Stato americano. Su Giuliano ricadde la responsabilità della strage ma, come emerge anche dagli studi di Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, sui monti intorno a Portella c’era artiglieria pesante, provenienza Usa e manovalanza di ex fascisti della Decima Mas della Repubblica di Salò.

 

L’eccidio doveva produrre una scossa per non far crollare nulla. Una strage stabilizzante, come lo sarebbero state tutte quelle che hanno accompagnato gli snodi della vita del Paese con il beneplacito di un pezzo di Viminale. Nella Sicilia dei sindacalisti ammazzati, dei sindaci eliminati, dei mille testimoni annichiliti, sequestrati, uccisi, infoibati, era proliferata per questo anche la categoria dei pazzi, di quanti avevano visto ed erano pronti a raccontarlo, a patto di essere protetti. Lasciati soli, guadagnavano la bolla di inattendibili perché insani di mente. Innocui, perché ridotti ad esserlo. La loro follia eterodiretta era un’arma. Toccò a quelli, Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva, che Ernesto Oliva ha raccolto nella galleria “I pazzi di Corleone” (Di Girolamo, novembre 2020, prefazione di Umberto Santino).

 

Proto-pentiti del primo dopoguerra, la legge sui collaboratori sarebbe arrivata solo nel 1991. Precisi, sicuri con le loro firme incerte sui verbali e poi, nelle aule, tremanti, bizzarri, grotteschi, gelati nella trappola della loro paura pur di auto-invalidarsi e lasciare che i loro racconti ammuffissero nei faldoni con in calce il nome dei futuri boss dei boss e sulla copertina il bollo dell’insufficienza di prove, decretata da eccellentissimi giudici a loro volta intimiditi o corrotti. Vivi però, perché, come si dice in Sicilia «sulu lu pazzu canta e sulu lu pazzu campa», ma reprobi, costretti alla fuga, in una diaspora del terrore, lontano dalla stessa terra che quelli conquistavano zolla dopo zolla calpestando raccolti, miseria e contadini, servendo i padroni di città che, illusi, immaginavano di potersene servire per sbarazzarsene quanto prima. Andò diversamente, perché i rozzi villani, con i feudi, si prendevano il potere. Con i cugini americani, il metodo per esercitarlo e con Vito Ciancimino, il politico che riuniva l’arroganza criminale e le entrature nei palazzi, il patrimonio di relazioni che conferisce comando.

Quella di Terranova è una traiettoria che interseca la vita e la morte di tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno lavorato sulla stessa materia, proseguendo il lavoro, sviluppandone filoni, coltivando intuizioni. Da Carlo Alberto Dalla Chiesa che, a Corleone, di Luciano Liggio e della scomparsa di Placido Rizzotto aveva iniziato a occuparsi nel 1948, a Boris Giuliano, il commissario che indagava in Sicilia ma guardava a New York, al banchiere della mafia Michele Sindona e a quello che i cugini d’oltreoceano consigliavano ai mammasantissima nostrani.

 

Proprio come Gaetano Costa, il procuratore che al ponte con gli Usa del clan Gambino-Inzerillo dedicò un atto d’accusa, firmato in una solitudine mortale. Il ponte mai interrotto con gli Usa è un filo rosso che ha a che fare tanto con la geopolitica quanto con il crimine. Gli interessi coincidenti si avviluppano nel grumo che ha reso incompiuta la nostra democrazia. E di contatti oltreoceano ne avevano anche quegli incolti corleonesi a partire dai padrini Vincent Collura e Angelo Di Carlo, tanto che una delle prime prodezze di Liggio fu quasi un atto da guerrigliero con il furto della cassaforte del corpo d’armata italo-tedesco. Se ne accorse e lo documentò in un «rapporto riservatissimo» un vicebrigadiere di provincia, il carabiniere Agostino Vignali. Quel dossier fu una miniera per Terranova che se lo ritrovò tra le mani agli albori delle sue istruttorie finite con la solita beffa dell’assoluzione per insufficienza di prove a Bari e Catanzaro. Marchio di infamia su una magistratura accomodante, paciosa, collusa. In una parola «sorda», come l’ha definita il magistrato ed ex parlamentare Giuseppe Di Lello, nel suo “Giudici” (Sellerio, 1994).

 

Già nel 1963 il vicebrigadiere aveva tracciato la mappa del potere a Corleone. Catalogato gli schieramenti e ricostruito la genesi, «grazie a protezioni che da Montecitorio vanno a Sala d’Ercole (sede del Parlamento siciliano, ndr)», di quella che la frettolosa storiografia ha liquidato come lo scontro tra Navarriani e Liggiani. Vignali aveva elencato interessi nuovi: «Predominio delle aree edificabili, l’accaparramento dei posti chiave delle pubbliche e delle private amministrazioni, le beghe politiche in favore di questo o quel candidato che prevalentemente fanno parte della Dc e del partito liberale». Aveva spiegato che non c’era pregiudizio in quelle parole, perché «la stessa cosa accadrebbe se quegli stessi uomini si presentassero domani sotto qualunque altro partito che avesse le mani in pasta nel governo della cosa pubblica». Così fu possibile il regime corleonese, inaugurato da un golpe, reso forte da latitanze leggendarie, 15 anni Liggio, 24 anni Totò Riina e 43 Bernardo Provenzano, nel dosaggio di segreti e, sono parole di Terranova, «nella certezza dell’impunità».