Poco più che ragazzi quando in Italia scoppiava il caso di Eluena Englaro, i millennials sono stati indispensabili per arrivare alle 750mila firme raccolte per il quesito radicale. Ecco chi sono

Ci sono vite compresse nella meccanica di un ventilatore polmonare, scandite dal suono di una macchina. Apparecchi salvavita suggerisce la scheda tecnica, che talvolta hanno il potere sinistro di trasformare la morte in un fallimento della medicina piuttosto che in un evento naturale. Per Fabiano Antoniani, andato a morire in una clinica in Svizzera, il fallimento sarebbe stato continuare a vivere dopo un incidente che nel 2015 lo aveva immobilizzato: «Da quel giorno vivo di quantità, non più di qualità», aveva detto a Le Iene, ricordando i due minuti di buio cerebrale sul ciglio della strada che avevano trasformato i due anni successivi in un inferno complesso per un ragazzo che desiderava soltanto una vita semplice, a partire dal suo nome: Fa-bo, due sillabe per un’esistenza lineare che la legge avrebbe complicato a lui e all’esponente dei Radicali, Marco Cappato, imputato per aiuto al suicidio, poi assolto in via definitiva nel febbraio 2018.

 

Da questa storia nasce la “generazione Fabo”, un movimento di giovani cresciuti nella morsa di attentati mondiali con i volti delle vittime di un martirio che non ha nulla da spartire col fuoco purificatore dell’eroismo partigiano o l’autocoscienza, ma è solo l’ombra del fondamentalismo religioso. Sono loro oggi, poco più che ragazzi quando nel 2009 si concludeva la battaglia giudiziaria sulla sorte di Eluana Englaro, a credere che, per un mondo giusto, sia necessaria una legge che permetta a un malato di essere aiutato a morire, se la sua sofferenza è indicibile.

 

eutanasia_Banchetto a Bologna

È grazie a loro se, in un poco più di un mese, sono state raccolte oltre 750mila firme necessarie a chiedere un referendum sull’eutanasia, e cancellare così la parte dell’articolo 579 del codice penale che prevede 15 anni di carcere per il reato di omicidio del consenziente.

 

A Torino neppure il caldo estivo ha fermato i giovani. Paola Stringa è una millennial di 35 anni, tra le prime avvocate autenticatrici in Italia: «Nel 2011 ho perso mio padre, poco prima di dare lo scritto dell’esame di avvocatura», ricorda con la voce rotta: «È mancato in un mese, mi sono spesa tanto perché nei suoi ultimi giorni non soffrisse». Anche se non hanno vissuto la sofferenza sulla propria pelle, tanti giovani lo fanno per senso civico: «A Santa Giulia, nel cuore della movida di Torino, un giovane è venuto a firmare a mezzanotte, non appena compiuti gli anni».

 

I minorenni non possono firmare, ma tanti danno comunque una mano: «Sono sensibili a un concetto di giustizia trasversale in tutti i popoli. Sono gli stessi giovani che portano la borraccia per non impattare sul pianeta e sono sensibili al domani, specialmente in termini di diritti civili», spiega l’avvocata, che pone uno iato con altre generazioni: «I giovani di oggi firmano perché vivono la disabilità o la sofferenza e hanno un concetto di libertà diverso. Non dimentichiamo l’aspetto dei diritti: frequentano scuole composte da classi miste, sono abituati a convivere con compagni di banco a cui sono negati diritti, perché non hanno la cittadinanza italiana».

 

Paola è tra le centinaia di volontari che hanno messo i moduli della raccolta firme nella borsa mare, oppure hanno deciso di rimandare le vacanze. «La sofferenza non va in vacanza, riposerò dopo, l’estate è l’ultimo dei miei problemi», spiega Grazia Coppola, coordinatrice di 25 anni della regione Lombardia: «Mi occupo delle province di Bergamo, Brescia, Lodi e Mantova» puntualizza aggiungendo che, per seguire le attività, a maggio ha lasciato la quiete della sua Bergamo per il fermento di porta Genova, dove sorge la cellula milanese della Luca Coscioni.

 

eutanasia_Banchetto a Cagliari, Cappato con un giovane firmatario

«Al mattino è sede operativa, al pomeriggio raccogliamo le firme», spiega: «Avere una sede fisica è importante anche se, per la prima volta nella storia di un referendum, c’è la possibilità di firmare online: specialmente anziani e diversamente abili ci chiamano per sapere tempi e luoghi fisici dove raggiungerci». La sede di via Colombo è un andirivieni anche di giovani: «All’inizio ero sorpresa dei tanti diciottenni in fila. Poi ho parlato con molti di loro e la cosa bella è che, in larga parte, sapevano già per cosa avrebbero firmato», aggiunge. Per Grazia è riduttivo spiegare quest’affluenza con l’effetto Ferragnez: «Sarebbe limitante dire che li ha spinti un post di Chiara Ferragni. I giovanissimi utilizzano le piattaforme social anche per informarsi, poi il merito va all’attività di divulgazione e comunicazione che la Luca Coscioni sta facendo sui social».

 

Lo spiegano Avy Candeli e Federica Nuzzo, direttore creativo e social strategist dell’associazione, e promotori del referendum Eutanasia legale: «Abbiamo fatto conoscere l’iniziativa ai giovanissimi sui social e le condivisioni sono state subito virali. Da una parte perché il tema politico era già noto, per storie importanti o esperienze personali. Dall’altra forse perché il concetto di libertà e di responsabilità, insieme alla possibilità concreata di contribuire a un mondo migliore o almeno più giusto, sono elementi che fanno sempre battere il cuore, in particolare ai più giovani», sottolineano.

 

«Sono soddisfatto di come ha risposto l’Abruzzo», ammette Riccardo Varveri, 24 anni compiuti ad aprile, da luglio coordinatore della sua regione. «Due terzi dei votanti sono under 30 e ci sono tanti giovanissimi che chiedono di essere attivisti: è la risposta a chi ci bolla come gioventù bruciata», ironizza. La città più attiva? «L’Aquila, con oltre 2mila firme: dice tanto, per una città che vive sulla resilienza e conosce il valore della vita», spiega. Riccardo, che per la sua laurea ha destinato parte dei suoi risparmi alla Luca Coscioni, crede che questo referendum sia il campo di prova di una nuova politica: «La nostra generazione ha una visione diversa da chi ci governa, spesso plasmata da esperienze di malattia e sofferenze personali», aggiunge, menzionando quella di un suo amico, con il padre malato terminale: «Gli chiedeva di soffocarlo: un padre a un figlio, capisci? Quando ho letto la lettera di Piergiorgio Welby ho compreso quanto un male possa essere invasivo», spiega.

 

Pensa che il referendum sia l’inizio di un nuovo modo di fare politica anche Feliciano Rossi, 25enne coordinatore dell’Emilia-Romagna, uno che la politica la respira da quando è maggiorenne: «Nella società di oggi, chiediamo che non ci sia più ambiguità sui diritti. Esistono posizioni divisive su temi così importanti, ma noi giovani le scavalchiamo, prescindiamo da una politica ambigua infestata di retorica spesso usata contro di noi. Lo dimostra la campagna di vaccinazione: noi giovani ci stiamo mostrando più responsabili degli adulti».