«Lo scorso aprile ho perso papà e la mia gatta, la mia guida e la mia consolazione. Mamma è sola e lontana, marito è amorevolmente solidale ma uomo di poche parole. Scivolo in una malinconia collosa, mi rifugio talvolta nelle storie che scrivo». Un tweet, un piccolo segnale nato da una catena social partita da due atlete - Naomi Osaka e Simone Biles - con lo scopo di sensibilizzare gli utenti sul tema dei disturbi mentali e arrivata fino in Italia.
Da noi ha iniziato la giornalista Marta Cagnola. «Soffro di depressione e disturbi d'ansia. Vent’anni fa la prima diagnosi di bipolarismo. Ho un bravo psichiatra. Non prendo farmaci da nove mesi ma se serviranno di nuovo non avrò alcuna paura». Le interazioni sono state centinaia. Persone che hanno affidato ai cinguettii il trascorso di una vita dolorosa, un presente di sofferenza e rinascita o l’elogio dei legami familiari, ponti per superare il male. Come questo utente: «Ho due figli con disturbi depressivi, anche la mamma era così. Ora lei non c'è più. Io ci sono, ci siamo stretti, telefonano e mi chiamano “papi”. Vivo all'estero, non è facile. Abbiamo tutti bisogno di parlare».
Per Cagnola, parlare di disturbi mentali è «come raccontare di avere il mal di schiena» e non certo con l’intento di banalizzare la sofferenza. È la maturità ad averle mostrato di essere fatta di sfumature, «alcune fighissime, altre meno», ma comunque «tutte parte del pacchetto completo». La depressione è una parte del suo bagaglio personale, ed essendo Cagnola un essere umano e non una sineddoche sa bene che non è la parte a definire il suo tutto.
Spesso con le iniziative nate sui social network è quasi impossibile risalire all’ideatore, ma pare che a dare il via alla campagna di sensibilizzazione sia stato il conduttore televisivo italo-americano Anthony Reali, da anni volto di una trasmissione sportiva. All'Espresso racconta di aver sentito il bisogno di scrivere dopo che le atlete Osaka e Biles avevano preso posizione sull'importanza della salute mentale per gli sportivi. «In terapia - dice Reali, che soffre di un disturbo di ansia - ho imparato l'importanza di parlare del mio malessere, per normalizzarlo. Da quel momento, mi ripeto sempre: la salute mentale, in fondo, è solo salute».
Dopo essersi ritirata dal Roland Garros, un importante torneo di tennis, per depressione, Naomi Osaka era tornata sul tema qualche giorno fa: «Ultimamente mi sono chiesta perché mi sento così e ho capito che uno dei motivi è credere di non essere mai abbastanza», confessava a Twitter. «So che in passato mi hanno definita umile - prosegue - invece sono troppo critica con me stessa». Con poche parole esprimeva il senso di inadeguatezza davanti alle sfide e il bisogno di confidare di più nel proprio potenziale. Stando alle interazioni degli utenti, deve aver toccato le corde di molti.
In quel tweet si sono riconosciuti in centinaia. Donne e uomini che hanno racchiuso nei 280 caratteri del social il loro perpetuo senso di insoddisfazione. Qualcuno gli ha dato un nome - sindrome dell’impostore. Il meccanismo per cui ci si sente poco brillanti, indegni dei successi ottenuti, truffatori verso chiunque ritenga di noi il contrario. L'espressione fu coniata nel 1978 dalle psicologhe Pauline Rose Clance e Suzanne Imes e si utilizza per descrivere «un’esperienza interiore di frode intellettuale, sembra particolarmente diffusa tra le donne di successo», affermavano nel loro studio.
«Con la sindrome dell'impostore ci ho lottato tutta la vita, devo ricordami ogni volta che mi merito di essere arrivata dove sono», commenta un utente sotto al tweet di Osaka. «Mi esibivo otto volte a settimana a Broadway e la maggior parte del tempo la passavo a dirmi che non me lo meritavo», confida un altro.
Osaka non è l’unica atleta ad aver dato una spallata (social) ai tabù sulla salute mentale. L’aveva già fatto la ginnasta statunitense Simone Biles durante le Olimpiadi. Si era ritirata da varie competizioni individuali e a squadre - celebrata come atleta infallibile prima, osannata per il coraggio di parlare di ansia e depressione poi - riuscendo comunque a vincere un bronzo alla trave.
Secondo lo psicologo Francesco Giaquinto, il fatto che una personalità in vista racconti sui social network il proprio disagio innesca un circolo virtuoso per diverse ragioni. Per prima cosa normalizza il discorso sulla salute mentale riducendone lo stigma sociale, un misto di pregiudizi e discriminazioni, cui sono ancora sottoposte le persone che ne soffrono. «Spesso si ha paura di parlare con chi ha la depressione, quasi fosse una malattia contagiosa», dice l’esperto. E favorisce l’identificazione di quei lettori che, riconoscendosi nel problema raccontato, sono spinti a contattare un professionista in grado di aiutarli.
Nonostante il successo dell'iniziativa, la psicologa e psicoterapeuta Francesca Esposito ammonisce sui rischi: «C'è bisogno di tempo per aprirsi, bisogna essere consapevoli che i social sono uno spazio in cui si è esposti, dunque può capitare di essere feriti». Perché è vero che Internet non è tutto da demonizzare, ma raccontarsi è un processo che si impara con il tempo. Consapevoli della prudenza necessaria a mettersi in gioco in prima persona.
«Io non mi sento di scrivere», aveva infatti commentato qualcuno in risposta al tweet di Cagnola. Quasi a dire «ti leggo, non riesco a espormi ma so di non essere solo». Come aveva risposto lei: «Basta sapere di essere in tanti».