Nella Valdarno, la frazione di Cavriglia, ora ribattezzata Castelnuovo dei Sabbioni, ha ottenuto 20 milioni del Pnrr. Serviranno a far rivivere il borgo della memoria: dai cavatori di lignite, alla deportazione dell’industrializzazione. Passando per le atrocità tedesche

La Grande Bellezza non c’entra. E neppure l’attrattiva turistica. Ciò che ha fatto la differenza, cambiato il paesaggio, la gente e perfino il nome dello spopolato borgo toscano in provincia di Arezzo, piazzato nella Valdarno proprio a ridosso del Chianti, è la sua tragica e specialissima storia. Con quella, Castelnuovo d’Avane - ribattezzato Castelnuovo dei Sabbioni - ha cominciato una second life di “rigenerazione culturale” da venti milioni di euro, messi a disposizione dal Mibac grazie al Pnrr.

 

Perché qualche mese fa il paese (una frazione di Cavriglia) ha vinto il Bando dei borghi, opportunità delle misure post Covid-19. Il denaro l’aiuterà a far riemergere, di qui al 2026, il passato e a trasformarne il futuro. Ma l’urgenza ora è realizzare il progetto di recupero che ha tanto convinto i funzionari dell’ex ministro della Cultura, Dario Franceschini, da surclassare ben 42 proposte presentate dalla Regione Toscana per rianimare altrettanti luoghi.

 

«Il piano si chiama Avane Centrale di creatività e include una Casa della memoria, un albergo diffuso, botteghe artigiane, due ristoranti, un nuovo sacrario, abitazioni per il cohousing sociale, spazi per artisti contemporanei, un centro documentazione. Stiamo lavorando con il sindaco Leonardo Degl’Innocenti o Sanni all’iter delle gare: a settembre 2023 si parte con i lavori», racconta Filippo Boni, vicesindaco di Cavriglia che alle disgraziate sorti del villaggio abbandonato ha dedicato anni di studi ed energie, nonché un bel libro edito da Longanesi (Muoio per te, pubblicato nel 2021).

 

Un passo avanti guardando indietro, per ricucire strappi e abbandoni, silenzi e affossamenti bellici. Per sanare ferite, per ricomporre identità e cancellare voragini lasciate da oltre un secolo di sfruttamento del suolo.

Quando, sotto il sole di ottobre, si arriva in cima alla salita, dove restano le mura slabbrate, qualche facciata, il museo, la targa commemorativa con i nomi delle vittime e i tetti di Castelnuovo, si capisce perché la mattina del 4 luglio del 1944 i nazisti fermarono i camion in fondo all’abitato. Le stradine erano troppo ripide. Salirono a piedi, sfondarono porte, irruppero di casa in casa, rastrellarono tutti gli uomini che trovarono: settantacinque. Tra loro c’erano contadini, minatori, sfollati da luoghi già martoriati. C’erano ragazzi terrorizzati, il macellaio, il barbiere, il panettiere, gli artigiani e il parroco Bagiardi. Don Ferrante implorò i tedeschi, si offrì in cambio della liberazione dei compaesani. Non se ne fece nulla. Le donne furono cacciate, si nascosero nel cimitero più a monte. Gli adulti che erano impegnati a lavorare nelle gallerie di lignite, militarizzate fino al 1944, non furono prelevati. I nazisti della divisione Hermann Göring spinsero in massa i prigionieri sotto la chiesa. Li addossarono al muro. Alle nove del mattino, da una mitragliatrice MG 42 partirono le prime raffiche, seguite da una sequenza di fucilate. I colpi mortali sui sopravvissuti che giacevano a terra. Gli uomini si accasciarono uno a uno. Solo un ragazzo di 17 anni, Aldo Dini, ultimo della fila dei prigionieri riuscì a scappare. «Si salvò perché andando verso il muro dalla parte sinistra vide il portone del palazzo attiguo semi aperto e s’infilò dentro. È ancora vivo, è mio zio, ha 95 anni», racconta oggi l’assessore al Turismo e all’Istruzione, Paola Bonci del Pd. Quel portone, dell’ex palazzo Zanuccoli ancora miracolosamente integro, sarà l’ingresso della Casa della memoria. Per completare “il lavoro di bonifica” disumana del capitano Wolf, che interessò diversi comuni del Valdarno e non solo, quell’afoso giorno del 1944 i tedeschi ammucchiarono i settantaquattro corpi, li cosparsero di benzina e li bruciarono. «Dopo una settimana mio padre Mario e altri paesani caricarono sul barroccio i resti del massacro per seppellirli in una fossa comune ai Camonti», sussurra a testa bassa Alfonso Biagioni, 84 anni, ex insegnante che si è arrampicato fin qui con il suo bastone per condividere il dolente racconto.

 

Per l’eccidio nessuno ha mai pagato, né si è celebrato alcun processo perché poco si seppe delle stragi toscane fino a metà degli anni Novanta, quando grazie anche al ritrovamento di documenti nascosti e alla collaborazione di un soldato alleato (Maurice Goran Nash, cittadino onorario di Cavriglia morto per Covid-19 a 96 anni) fu fatta luce sull’orrore di quei giorni.

Ma c’è un altro dramma che ha segnato la storia di Castelnuovo d’Avane, uno stillicidio arrivato dalle viscere della terra con la lignite xiloide, carbone fossile su cui da metà Ottocento si è fondata l’economia del borgo. E che ne ha decretato la fine. A raccontare con foto, video, testimonianze e oggetti l’epopea delle miniere e del paese è il Mine (Museo delle miniere e del territorio: www.minecavriglia.it), struttura comunale ospitata da una decina di anni negli spazi dell’ex chiesa di San Donato. Sette sale e una direttrice appassionata, Paola Bertoncini, che documentano l’origine preistorica del materiale fossile, le tecniche di scavo, gli strumenti usati, i suoni delle gallerie, la dura vita dei minatori, le lotte sindacali, i guai geologici. «Abbiamo circa 3000 visitatori l’anno, una rete di scuole con cui organizziamo attività ma soprattutto conserviamo la memoria. Se non fosse stato per Emilio Polverini, ex tecnico delle miniere, che per decenni ha archiviato migliaia di foto oggi non avremmo niente», racconta la direttrice.

 

«Qui tutto è cominciato nel 1861 quando si decise di sfruttare la lignite e i contadini si trasformarono in minatori. Lo scavo in galleria fino alla Seconda Guerra Mondiale impegnò anche seimila persone arrivate dal circondario. Nacque il paese di San Barbara per dare loro alloggio», prosegue lo scrittore-vicesindaco eletto nella lista civica “Insieme per Cavriglia”, Filippo Boni. La fatica, il buio del lavoro a 130 metri sottoterra, la miseria, la Grande Guerra, le malattie, la strage nazista, la Società di mutuo soccorso e la metamorfosi geologica che ha creato un lago dove c’era la cava e modellato colline mai viste prima. Ultimo evento degno di nota: il film Ivo il tardivo, girato nel borgo abbandonato da Alessandro Benvenuti nel 1995, di cui restano alcuni cruciverba-murales tra i ruderi.

 

«Alla Dispensa, il quartiere costruito per i minatori, eravamo 120 famiglie, c’erano gli operai e i tecnici. Io da ragazzino abitavo nella parte bassa. Molti alloggi degli anni Venti avevano il pavimento in terra rossa, altri erano tirati su in laterite. Si stava insieme. Una comunità forte. Divisa nel Dopoguerra tra comunisti e democristiani, le tensioni non mancavano ma neppure la solidarietà. Codeste case basse erano tuguri. Poi fu impiantata la centrale termoelettrica a Santa Barbara, a pochi chilometri dal giacimento (un’opera avveniristica di Riccardo Morandi, ndr). E quando a inizio anni Sessanta ci trasferirono - chi a Camonti e chi altrove - per il rischio di crolli. Noi eravamo contenti per le comodità moderne», ricorda lentamente Alfonso Biagioni.

La zampata della modernità, e del successivo sfollamento di Castelnuovo d’Avane, si era manifestata già nel 1956. Quando, per far ripartire l’Italia, con il piano Santa Barbara si avviò l’estrazione della lignite a cielo aperto: 450 milioni di metri cubi di terra furono sbancati da Enel, titolare della concessione, per estrarre carbone. «E il paese fu mangiato dalle ruspe», aggiunge Alfonso: «L’Ater ci diede le case e una pioggia di 49 milioni di lire. Arrivò qui anche Fanfani. Negli anni Settanta nel villaggio c’erano solo un paio di famiglie. L’ultimo ad andarsene fu Rambaldo Macucci. Poi l’Enel mise il filo spinato».

 

Una recinzione rimasta lì fino al 2003 quando il Comune di Cavriglia ha riacquisito dall’azienda elettrica il borgo, per poi trasformare la Chiesa di San Donato in auditorium annesso al museo Mine inaugurato nel 2012. «Fu l’inizio di un piccolo Rinascimento grazie a un fondo regionale e a uno comunale», spiega il sindaco Leonardo Degl’Innocenti o Sanni: «Ora si aspetta il completamento. Siamo felici del finanziamento del Pnrr. Ne beneficerà tutto il territorio e sei milioni di euro da dedicare all’attività culturale sono una conquista e una sfida. Entro giugno 2026 sarà tutto pronto. Ma, visti i tempi della burocrazia, bisogna essere ottimisti».