Oggetti e tecnologie fruibili anche da chi soffre di disturbi psicofisici. Specialmente dai bambini. È il nuovo orizzonte della progettazione che si fa inclusiva. Contro il grande potere dell’esclusione scambiata per normalità

Colori troppo brillanti o suoni forti e improvvisi in un film, in un gioco, fra le app della nostra smart tv sono piccoli elementi di una strisciante discriminazione. Oggetti e servizi che escludono più persone di quante riusciamo a immaginare da azioni semplici e quotidiane, perché modellati sulle esigenze di un solo gruppo di persone fin dalle origini del processo creativo. Frammenti di una tecnologia a cui non deve più bastare il farsi accessibile, ma che ha bisogno di diventare inclusiva, ampliandosi prima di tutto agli utenti con disturbi psicofisici e del neurosviluppo.

 

È questo l’obiettivo che si pongono i designer di oggi, mentre pensano a come progettare l’interfaccia di Netflix sui televisori delle nostre case affinché l’uso sia semplificato per chiunque, a come disegnare i protagonisti dei cartoni animati Rai o a quali materiali usare per nuovi giocattoli adatti alle esigenze di bambini con disturbi dello spettro autistico.

«Il concetto di design inclusivo è molto ampio, dentro ci possono essere applicazioni diverse che vanno dal digitale e dall’interazione con la tecnologia fino all’esperienza nello spazio fisico e nella relazione con gli altri. È così che progettiamo per fare in modo che non ci siano discriminazioni», afferma Roberta Tassi, designer e fondatrice dello studio Oblo: «Applicare il concetto di inclusione significa adattare l’esperienza e il servizio a vari livelli di diversità già dalla progettazione. Quando un servizio nasce con un’attenzione verso una determinata categoria di utenti, sicuramente può diventare utilizzabile per loro ma anche migliorare la fruizione per tutti gli altri».

 

Sempre più progetti “inclusive by design”, concepiti con l’idea di non creare discriminazione e d’interrogarsi su quali sono i possibili utilizzi e le conseguenze nei confronti di una varietà di utenti, sono anche indice di un’attenzione crescente verso il tema da parte delle aziende e delle istituzioni.

Così le necessità di un sempre più ampio gruppo di persone — che non coincide più con il gruppo “prescrittivo” (bianco, cis, etero e normodotato) — stanno erodendo il grande potere dell’esclusione, scambiata per normalità. Pur con qualche resistenza. Secondo Tassi, tutto sta nel «cambiare un servizio in modo che non ci sia bisogno di stigmatizzare o di isolare determinate comunità di persone». È ciò che accade, per esempio, nella progettazione di prodotti per persone con neurodivergenze come l’autismo: non solo interfacce digitali per il Web e le smart tv, di cui si è occupata Tassi, ma anche oggetti quotidiani, giocattoli e prodotti audiovisivi.

Laura Fornaroli, designer formatasi presso l’Accademia Naba di Milano, nel 2015 realizza Willi, un prototipo sviluppato nel laboratorio di tesi della direttrice del dipartimento di Design, Vered Zaykovsky, e pertanto mai messo in produzione o distribuito. Willi è un giocattolo sociale «che parte dallo studio di una diversità, ma che si risolve nel concetto di eguaglianza e integrazione», afferma Fornaroli. Si tratta di undici sassolini colorati dalle forme concave e convesse che, incastrandosi, funzionano anche come costruzioni. Sono accompagnati da un panno per contenerli o nasconderli e da una serie di figure da riprodurre seguendo le istruzioni. Operazione, questa, non sempre automaticamente comprensibile per soggetti nello spettro e quindi fondamentale per il loro apprendimento del concetto astratto di spazio.

«Willi può essere utilizzato per insegnare ai più piccoli concetti semplici come contare, riconoscere i colori e la consistenza, migliorare la memoria, l’imitazione e l’immaginazione. Volevo progettare un gioco adatto soprattutto ai bambini e sono stati proprio due bambini a darmi l’ispirazione giusta», ricorda la designer, raccontando che la sua idea è nata mentre osservava un paio di ragazzi intenti a giocare con i ciottoli di un fiume. «Volevo mettermi alla prova, disegnare un prodotto che fosse in grado di fare davvero la differenza per qualcuno», continua, aggiungendo di aver trascorso l’intero periodo della progettazione con bambini autistici e con le loro famiglie, studiandone difficoltà e bisogni. Tutto, dai colori tenui alle forme dei pezzi, è pensato per non creare disagio nei bambini con disturbi autistici, ma al tempo stesso Willi rimane adatto per qualsiasi altro bambino. È un ampliamento di possibilità, non una sostituzione a quelle preesistenti: eccola, la definizione di inclusione.

Allo stesso modo è pensato anche il nuovo prodotto Rai dal titolo “Il mondo di Leo”, una serie animata nata da un’idea di Eleonora Vittoni e della produttrice Emanuela Cavazzini. È proprio lei, contattata da L’Espresso, a spiegare che “Il mondo di Leo” «nasce dall’esigenza effettiva di una madre, Eleonora, che vive le difficoltà quotidiane e dalla mancanza di cartoni animati concepiti per essere fruiti in prima persona da bambini autistici».

Cartoni animati che parlano dell’autismo in maniera tecnica e didattica, infatti, esistono già, ma si rivolgono all’esterno, a chi non è coinvolto. Una lacuna sottolineata anche dal regista e art director Dario Piana: «L’idea era quella di un cartone di puro intrattenimento in cui, sì, il protagonista è autistico, ma lo si dichiara in modo sottile, nei gesti e nei movimenti. Non è un bambino isolato, perché è inserito in dinamiche inclusive. Senza trasformare la serie in un trattato medico, abbiamo carpito i punti importanti da affrontare, temi comuni anche a bambini non autistici, arrivando a una descrizione delicata dei problemi della vita di ogni giorno».

Come si costruisce, però, nel concreto un prodotto del genere? Con la consulenza clinica, prima di tutto. In questo caso, quella del professor Paolo Moderato e della dottoressa Francesca Pergolizzi. «Abbiamo lavorato con il professore che ci ha spiegato cosa piace ai bambini autistici, ci ha spiegato come farlo. Abbiamo evitato la complessità dell’inquadratura e siamo rimasti su un cartone bidimensionale, anche se molto colorato», continua Piana. «Il rapporto con l’esperto ci ha aiutato a identificare la linea artistica che potesse essere meglio accolta da bambini e ragazzi per i quali è necessario uno studio grafico comprensibile, che non crei fastidi, a partire dalla rotondità della fisionomia dei personaggi e dai colori degli ambienti. Tutto è stato studiato, condiviso e scelto dai bambini seguiti dal professore», aggiunge la produttrice Cavazzini.

La serie animata, disponibile su Rai Yoyo e RaiPlay dalla fine di novembre, dimostra ulteriormente quanto un prodotto consapevole sia fattibile. E incarna quel principio del «risolvi per uno, estendi a tanti» su cui il design inclusivo, per definizione, si deve basare e a cui si deve ispirare per continuare a svilupparsi in ogni ambito della quotidianità.