Un convegno sull’interruzione di gravidanza nell’Ateneo pubblico curato da Pro-Vita. E non è la prima volta

I pro-life salgono ancora in cattedra all’università. Dopo il caso dei volantini e banchetti anti-abortisti alla Sapienza, del convegno all’Università di Torino e del logo della Carlo Bo di Urbino che compare nel volantino del talk “L’aborto: il dubbio delle 9 settimane”, ora tocca a Pavia, sede del convegno “L’interruzione di gravidanza nella relazione 2021 al Parlamento”, promosso dal movimento anti-abortista FederVita Lombardia insieme all'Unione Giuristi Cattolici e il CAV di Pavia e accreditato per la formazione continua di avvocati e del personale medico-sanitario.

Non è la prima volta che l’Ateneo di Pavia ospita eventi legati ad associazioni e gruppi pro-life e le organizzazioni studentesche uniscono le loro voci di protesta. Era successo anche nel 2019, pochi mesi dopo il Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona, quando a parlare era stato il senatore della Lega Simone Pillon. «Anche allora avevamo organizzato proteste e manifestazioni. L’università non dovrebbe privilegiare la presenza di organizzazioni pro-vita all’interno di uno spazio pubblico» spiega Rossella Cabras, attivista di Non Una di Meno Pavia. Ma, a quanto si apprende, nelle aule universitarie non sembra ci sia posto per il dissenso. «Quando le attiviste sono andate nei giorni scorsi nelle aule ad attaccare i volantini per informare gli altri studenti in merito alla protesta  uno dei guardiani ha intimato loro di andarsene. Le attiviste hanno anche scritto un comunicato chiedendo al Rettore Francesco Svelto di assumersi la responsabilità politica di una scelta che privilegia visioni retrograde e conservatrici» prosegue Cabras. Tuttavia per l’Università di Pavia non sembrano esserci questioni ideologiche: l’ateneo si sarebbe limitato ad affittare l'aula previo pagamento.

«Il convegno si contrappone alle buone pratiche promosse da gruppi preparati (ce ne sono molti) che da anni cercano di fare formazione laica nelle scuole». A parlare è la giornalista e scrittrice Stefania Prandi. «Le associazioni cattoliche estremiste hanno dichiarato, anni fa, guerra al cosiddetto "gender", introducendo, con questa parola inglese male interpretata e usata in modo distorto, una categoria fittizia e strumentale per portare avanti istanze retrograde e dannose per un miglioramento della società. In realtà, gli studi di genere sono una disciplina vera e propria in molti ambiti universitari a livello internazionale».

 

L’anno scorso al Liceo Giulio Cesare di Roma è stato bloccato il corso sull’interruzione volontaria di gravidanza organizzato in collaborazione con Laiga, Libera Associazione Italiana Ginecologi per Applicazione Legge 194, e il collettivo ZeroAlibi durante la settimana dello studente. Nel gennaio 2020, durante il normale orario didattico, Senesi ha organizzato l’evento "Avrò cura di te - Dialogo sulla vita e la medicina", presentato come una sessione per l’orientamento alla facoltà di medicina, che si è rivelato un convegno antiabortista. L’incontro è stato organizzato con Minas Tirith, centro studi che si pone come “punto di riferimento culturale per chi vuole contribuire all’educazione delle nuove generazioni”, insieme all'Associazione italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici. Altro caso emblematico è il report a cui ha contribuito Benedetto Rocchi, professore associato al Dipartimento di scienze per l'economia dell’Università di Firenze sui costi della legge 194, report commissionato dall’associazione antiabortista Pro-Vita e Famiglia. Secondo Rocchi la legge 194 sarebbe responsabile di una spesa tra i 4,1 e i 5,6 miliardi in 40 anni e metterebbe “ a rischio la salute delle donne”.

In un contesto in cui infiltrazioni pro-vita avvengono frequentemente in aule e spazi predisposti alla formazione, l’educazione alla parità di genere è l’unica via possibile. «In Italia siamo ancora molto arretrati, rispetto al resto dell'Europa occidentale e del Nord, l'educazione alla parità di genere, alle differenze e alla sessualità» prosegue Stefania Prandi delineando uno scenario tutt'altro che rassicurante . «Basti pensare che in Paesi come Francia, Danimarca e Germania l’educazione sessuale è diventata una consuetudine già una cinquantina di anni fa. A pesare sulla situazione italiana il forte imprinting cattolico che non riusciamo a scrollarci di dosso. È tuttavia indispensabile per prevenire la violenza maschile contro le donne, i femminicidi, e per dare alle ragazze e ai ragazzi, ma ancora prima ai bambini e alle bambine, la possibilità di autodeterminarsi».