Violenza sulle donne
Sopravvivere al femminicidio: «Raccontare cosa mi è successo può salvare la vita»
Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon fanno parte dell’associazione Difesa donne, impegnata a offrire primo soccorso alle donne in difficoltà e a sensibilizzare sul tema della violenza patriarcale. Seppur in modo diverso sono tre sopravvissute, unite dal desiderio di mettere la loro storia al servizio delle altre. Perché non si ripeta mai più
«Raccontare quello che mi è successo significa liberarsene. Affidarne un pezzettino a chi mi sta ascoltando, per scaricare il peso che altrimenti mi porterei addosso da sola». Per Beatrice Fraschini la condivisione passa attraverso il potere salvifico delle parole, filo conduttore in grado di unire queste donne che restano. E raccontano, costruendo ponti a disposizione delle altre, perché non accada più che una donna muoia per mano di un uomo, vittima di femminicidio.
Nel 2021, l’anno in cui è stata fondata l’Associazione di cui anche Fraschini fa parte, hanno perso la vita in 119 (due in meno dell’anno precedente). Calano i femminicidi ma aumentano gli episodi di stalking, i maltrattamenti e i reati sessuali, come denunciava pochi giorni fa un’analisi realizzata dal Dipartimento di pubblica sicurezza. Ed è proprio per prevenire che Beatrice ha deciso di mettere a disposizione la sua storia.
«All’inizio lui era solo frenetico, più iperattivo, dormiva sempre meno. Poteva essere un segnale che non stesse bene. Avevamo ripreso a frequentarci dopo una pausa di qualche mese e lui aveva cambiato terapeuta. Lei volle vedermi, le raccontai le mie perplessità sul suo comportamento. Mi rassicurò. Non mi sarei mai aspettata di arrivare a quel punto». L’ex fidanzato di Fraschini era in cura per aver già dimostrato atteggiamenti violenti verso un’altra donna. Ma la psicologa la rassicura sul corretto svolgimento della terapia e lei si fida. Dopo la frenesia che l’aveva insospettita arrivano i commenti fisici. Innocui all’inizio: «Ma guarda che sei già bella di tuo, non devi truccarti troppo. A che serve quella minigonna?». Poi il bisogno di colmare ogni ritaglio di tempo libero con la presenza fisica. «Mi veniva a prendere ogni giorno quando staccavo dal lavoro, pur abitando in un quartiere distante. Se dicevo che non ce n’era bisogno si insospettiva, “mica hai un altro”, allora acconsentivo». E poi i messaggi, assillanti, per rendicontare ogni spostamento: «Era reciproco per quanto soffocante, lo facevo anche io e lo consideravo una sorta di dare e avere».
Non lo era. Il suo ex fidanzato, quattro anni e mezzo insieme, ha provato ad ammazzarla dopo averla segregata in un appartamento e seviziata per quattro giorni. Per salvarsi la vita Fraschini è saltata dalla finestra del secondo piano, con il corpo contuso ma finalmente libera.
«Appena salita in ambulanza ero tranquilla, perché sapevo di essere al sicuro. Quando mi hanno dimessa ho sentito la necessità di fare qualcosa. Non volevo che la mia vicenda passasse sotto silenzio. E forse quel che è capitato a me può essere d’aiuto a un’altra». Per il suo ex, condannato a sei anni in primo grado poi ridotti a quattro in appello, non c’è più rabbia ma solo pena. «Per l’ennesima volta ha buttato al vento la possibilità di dimostrare di essere diverso». Mentre lei i suoi cocci ha saputo raccoglierli, coronando un sogno che teneva in tasca già da qualche tempo: «All’inizio di marzo 2020 sono diventata volontaria della Croce verde, portavo la spesa a chi non si poteva muovere da casa. Appena è stato possibile ho fatto il corso per diventare soccorritrice. Mio padre, che in Croce verde ci lavora, voleva proteggermi da un mondo che spesso è duro. Ma il solo fatto di aver vissuto quello che ho vissuto abbatteva queste preoccupazioni».
Anche Livia Prosperi fa la volontaria, «ho iniziato otto anni fa, forse questo senso del dovere me lo porto dietro da un bel po’». Lo dice e ride e poi si fa seria spiegando perché racconta di sua madre, Roberta Priore, uccisa dal suo compagno nel 2019. «Ho superato la parte del doverle rendere giustizia, io so chi era mia mamma e questo basta. Lo faccio perché so che lei avrebbe messo a disposizione delle altre donne la sua storia». All’inizio non è stato facile. «A lungo sono stata accerchiata dalla paura di cosa pensasse di me chi mi conosceva. Pian piano però ho sentito che non volevo la mia storia rimanesse lì. Succede ad altre donne, può succedere a chiunque. Per me e mia mamma non c’è più tempo, per le altre sì». Anche se trovarle, le parole per dirlo, costa fatica: «La sera prima degli incontri ho sempre zero voglia, emotivamente è una batosta, ma spero serva a chi mi ascolta. Dopo ne esco appesantita ma felice. Una volta una ragazza mi ha detto “non smettere mai di raccontare la tua storia così, perché fai la differenza”. E allora continuo nella missione che mi sono data». A sentirla parlare sembra che Prosperi abbia due cuori. «Per me è importante scindere il ruolo di figlia da quello di testimone e cerco di non sovrapporre mai i due aspetti. Nella mia testimonianza non porto il mio dolore, altrimenti chi mi sente oltre a piangere non conserverebbe nulla. Condivido quel che mi è successo perché non accada più».
Per evitare che chi la ascolta perda ciò che lei e sua madre non possono più recuperare: il tempo. «Si dice sempre “perché le donne non si allontanano da un uomo violento?”. Non lo fanno perché sono innamorate. E mia madre era sinceramente innamorata. Avevo la sensazione non fosse l’uomo giusto per lei, ma non la sentivo urgente. E poi non c’è stato il tempo materiale, mia mamma l’ha conosciuto a novembre ed è morta a marzo». Una settimana dopo, lui si toglie la vita in carcere. «Ha scelto tutto da solo. Lui ha deciso che mia madre non sarebbe mai diventata nonna, che non sarebbe mai venuta alla mia laurea. Avrei voluto un processo, una giustizia. Non l’ho mai più visto. Non so neppure come siano andate le cose e non lo saprò mai, ma forse non è importante». Non c’è astio verso quell’uomo, la memoria di Prosperi è fissa sul ricordo di sua mamma: «Non mi concentro a odiarlo, ma su quello che lei è stata e mi ha insegnato. Tolleranza, amore, accoglienza. Voglio cercare di stare bene e far star bene gli altri».
La capacità di plasmare il dolore incanalandolo in testimonianza è il filo che collega Beatrice a Livia e loro due a Maria Teresa D’Abdon, una madre che ha perso sua figlia, Monica Ravizza, per mano del suo fidanzato, nel 2003. «All’inizio non accettavo di perdonare, poi ho iniziato a elaborare il lutto. Ho capito che dovevo incontrare la mamma del ragazzo. Le ho lasciato una lettera nella buca della posta, invitandola in chiesa per la commemorazione di Monica. L’ho vista arrivare e le sono andata incontro, ci siamo abbracciate. Quando ci siamo messe a parlare, però, ha giustificato il gesto del figlio. Mi sono cadute le braccia. Poi mi sono detta di aiutare chi ha bisogno». E così ha fatto, fondando l’associazione Difesa donne nel 2021.
Un modo per connettere chi resta, familiari di donne che hanno subito violenza o donne che l’hanno vissuta in prima persona. Con l’obiettivo di fornire primo soccorso a chi si rivolge loro e fare attività di prevenzione e sensibilizzazione (tra i fondatori dell’Associazione c’è anche Roberto Ottonelli, autore di un libro contro la violenza di genere, “Credi davvero che sia sincero”, incentrato sul femminicidio di Monica Ravizza). «Non dimentico quello che è successo, dice D’Abdon, ci sono momenti in cui il pianto soffoca il respiro, poi mando giù e capisco che la cosa migliore da fare è agire». Per riempire il tempo, per un atto di fede verso chi amavi e non c’è più. «Mi muovo e ricomincio, là fuori qualcuno ha bisogno di me. E quando sento quelle donne che chiamano di notte chiedendo aiuto, la loro voce mi colpisce dritta al cuore. Gli offrirei anche il mondo intero. Sono sempre riuscita ad aiutarle a ricominciare. Quando succede mi sento sollevata. E spero che mia figlia gioisca vedendo quello che sto facendo».
Così, con questa specie di ricordo militante, che non è solo commemorazione ma azione concreta per cambiare le cose, Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon hanno plasmato il dolore. Con le parole, che sono diventate strumento di condivisione, allerta, prevenzione. E salvando le altre, hanno salvato anche se stesse.