A Gattatico la casa colonica in cui vissero i sette uomini fucilati dai fascisti nel 1943 è un simbolo dell’antifascismo. Dopo due anni di lavori ha riaperto al pubblico, arricchita da testimonianze, foto, documenti

Il cancello dell’ingresso principale è spalancato. Di fronte c’è una struttura colonica dalle finestre azzurro-cielo, nel bel mezzo dei Campirossi, un podere di 16 ettari delimitato da alberi spogli che guardano verso l’alto quasi a voler toccare le nuvole. Dal lì, da quel primo piano rivolto al Sud su cui affacciano la camera da letto di Alcide Cervi e Genoeffa Cocconi e la cucina con il grande camino, rimaste entrambe intatte, si intravedono le colline sulle quali i sette fratelli Cervi (figli di Alcide e Genoeffa) intrapresero le prime battaglie partigiane. Bisogna affinare lo sguardo però, perché qui la nebbia avvolge ogni cosa. Per un attimo sembra di essere in una fotografia di Luigi Ghirri, costruzioni urbane in mezzo al nulla. Ma quando il sole riesce a farsi largo ecco che la Pianura Padana si mostra in tutta la sua estensione fino ad arrivare a quelle colline dell’Appennino emiliano dove la “Banda Cervi” si era spinta oltre i confini della clandestinità.

 

Siamo esattamente a metà strada fra Parma e Reggio Emilia, a Gattatico, dove Casa Cervi è un luogo simbolo di antifascismo e Resistenza. Per chi viene da fuori la grande targa esposta vicino al cancello è un invito ad entrare nella Storia: «Su questa terra, in questa casa, i sette fratelli Cervi vissero il senso della loro vita. Su quest’aia vennero presi e portati alla morte». Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore (età dai 42 ai 22 anni), insieme a Quarto Camurri, furono fucilati dai fascisti all’alba del 28 dicembre del 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre del ‘43 la loro casa, che ospitava rifugiati e riunioni clandestine, fu messa a ferro e fuoco e i fratelli portati nel carcere di Reggio Emilia con l’accusa di aver complottato per l’uccisione del segretario fascista di Bagnolo in Piano. Un mese dopo, il 28 dicembre, i colpi mortali.

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Proprio in quella casa, dove i Cervi si trasferirono nel 1934, diventando da mezzadri ad affittuari (infine proprietari nel dopoguerra, grazie all’aiuto della Provincia di Reggio Emilia), vent’anni fa fu inaugurato il Museo, ora completamente rinnovato dopo due anni di ristrutturazioni. Progettato da Massimo Venegoni, dello Studio Dedalo di Torino, in collaborazione con la storica Paola Boccalatte, il Museo Cervi oggi è uno spazio espositivo tecnologico e multimediale, arricchito di video e di testimonianze, ma nello stesso tempo ancorato alla tradizione. E allora siamo tornati in quei luoghi in cui Maria Cervi, figlia di Antenore, raccontò per anni la storia della sua famiglia, come fece anche nonno Alcide in un libro tradotto in tutto il mondo (“I miei sette figli”, a cura di Renato Nicolai, stampato per la prima volta da Einaudi nel 1955). Lei, che con tanto amore e dedizione si era dedicata al consolidamento della memoria, non c’è più dal 2007.

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Ma c’è un’altra Cervi, l’unica a vivere nella vecchia casa di famiglia, ad accoglierci. È Luciana, tornata lì con il marito nel 1975, dopo aver lasciato l’abitazione nel 1969. Non ama parlare con i visitatori Luciana, è schiva, ma le piace il teatro e da lì inizia la nostra conversazione. «Qui ospitiamo ogni anno tanti spettacoli teatrali, non perdo mai una serata». Il Festival della Resistenza da vent’anni in estate trasforma l’aia in palcoscenico, con una grande festa finale a base di pastasciutta ogni 25 luglio per ricordare quel 25 luglio del ‘43 in cui Mussolini cadde e la famiglia Cervi offrì pastasciutta a tutto il paese. «In quell’aia veniva nascosto il formaggio. Eravamo contadini e nel dopoguerra aiutavamo tante famiglie», dice Luciana, che di suo padre Agostino non ricorda neanche il volto. «Avevo tre anni quando fu fucilato. Ricordo solo il dopo, quando noi della famiglia mangiavamo tutti insieme nella stalla e a un certo punto dovevamo liberare il tavolo perché stava arrivando gente con tanti doni. Mio nonno Alcide accoglieva tutti e raccontava. Non in casa però. Non si parlava di ciò che era accaduto, neanche mia madre Irnes lo faceva. Di mio padre, così mi diceva mia zia Diomira, so che amava giocare a bocce e che non si tirava indietro quando c’era da andare a comprare il latte. Purtroppo in quel periodo sono morte tante persone, io sono solo una delle tante vittime».

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Il fratello di Luciana, Adelmo, figlio di Aldo, da molti anni ormai continua a raccontare la storia della famiglia attraverso le pagine di un libro (“Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio”, con Giovanni Zucca, prima edizione Piemme 2014): «Avevo pochi mesi il giorno in cui mio padre fu ucciso dai fascisti», ricorda: «E allora non potevo essere consapevole della storia gloriosa della mia famiglia. L’ho capito dopo. Ma continuo a raccontarla, perché ci sono ancora tante battaglie da portare avanti, soprattutto per i diritti dei lavoratori. Abbiamo una meravigliosa Costituzione, facciamoci ascoltare. Ai ragazzi dico questo: essere antifascisti, essere partigiani oggi, significa combattere contro tutte le ingiustizie».

La storia della famiglia Cervi è ben documentata nel percorso museale che comincia dalla Sala chiamata “La storia” in cui risuonano le testimonianze di Ottavia Piccolo, Moni Ovadia, Marco Rovelli. Ci accompagna lungo il percorso Paola Varesi, responsabile del Museo. «Abbiamo deciso di aprire il percorso partendo dalla fine, cioè raccontando la fucilazione del ‘43 e poi andando indietro nel tempo e lasciando al visitatore la possibilità di scoprire la storia della famiglia».

E così ripercorriamo le loro vite, le origini contadine, la voglia di cambiamento, di sperimentare nuove tecniche nella coltivazione e nell’allevamento. E il loro amore per lo studio, come testimonia la Biblioteca circolante (con testi vari, dai romanzi di Dostoevskij all’Iliade), e il desiderio di essere liberi, con uno sguardo sempre aperto verso il mondo, come testimonia quel mappamondo avuto in dono dal commerciante che nel 1939 aveva venduto alla famiglia il primo trattore ora al centro della stalla. Da una parte la sfida per l’innovazione contadina, portata testardamente avanti nonostante i vicini li chiamassero “matti” vedendoli lavorare su quei campi impraticabili, dall’altra la lotta politica, con valori antifascisti sempre più forti dopo lo scoppio della guerra.

La loro storia si intreccia anche con le vicende di altre famiglie, come quella di Otello Sarzi, burattinaio che durante la guerra girava con i suoi spettacoli “sovversivi”, sostituendo le battute dei testi teatrali con i messaggi antifascisti.

E così storie, parole, suoni, immagini si mescolano durante il percorso, che continua a custodire anche oggetti preziosi del passato, dalla pedalina con la quale veniva stampata clandestinamente l’Unità e tanti volantini, fino al vecchio telaio nella stanza in cui mamma Genoeffa amava leggere storie ai bambini (soprattutto l’episodio della Monaca di Monza dei “Promessi Sposi” e, da buona cattolica, pagine tratte dalla Bibbia). E poi c’è la prima cinepresa che proiettò il film “I sette fratelli Cervi” di di Gianni Puccini. Un museo fra antico e moderno, insomma, con un’ampia sala dedicata anche alla dimensione pubblica della famiglia, circondata dall’affetto di tutto il paese, come raccontano i tantissimi oggetti donati nel corso degli anni, comprese le opere di artisti reggiani come Alfonso Borghi, Mario Rosati e Costantino Morini.

 

Sono spazi pensati per far conoscere la storia anche ai più giovani. E proprio in queste settimane stanno tornando al museo le scuole, coinvolte nelle attività culturali organizzate dall’Istituto Alcide Cervi e coordinate da Mirco Zanon Cervi nell’edificio che costeggia la Casa, dove ha sede la Biblioteca Emilio Sereni. «Sono sempre rimasta molto sorpresa dalla forza della famiglia Cervi per aver trovato la forza per combattere l’oppressione che sembrava non finire mai», ci racconta Alberta Soliani, presidente dell’Istituto Cervi: «Il nuovo museo nasce per parlare alle coscienze individuali e per rispondere alla domanda “Attorno a quali valori stiamo insieme?”. Il papà Alcide Cervi diceva che “dopo un raccolto ne viene un altro”. Io credo che questo sia un messaggio di speranza molto importante. Casa Cervi deve continuare a vivere perché la lotta per un mondo migliore non finisce mai».  

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