Non ci fu nessun incendio a Cozzo Disi, il 4 luglio del 1916 nella miniera di Casteltermini in provincia di Agrigento. I sopravvissuti trovarono le porte chiuse. In un vecchio audio ora ritrovato la verità dell’unico caruso scampato al crollo che causò 89 morti

Se la storia viene scritta dai potenti, a sovvertire questa realtà ci prova la fioca voce di un minatore che racconta, dopo più di cento anni, la più grande tragedia mineraria d’Italia. Attraverso un audio, registrato da due giornalisti nel 1982 e riscoperto solo adesso a Casteltermini, paese di miniera della provincia agrigentina, gli 89 morti della tragedia di Cozzo Disi del 1916 cercano di avere giustizia. In quel processo in cui nessuno pagò, l’unico testimone della vicenda, Vincenzo Vutera, racconta una versione diversa dei fatti: soccorsi sbagliati, porte serrate per i superstiti e un’esplosione mai avvenuta. Un crollo causato dalla sete di denaro, che prevalse sulla sicurezza di centinaia di persone.

 

Il suono caldo e sporco dell’audiocassetta esce dalle casse dello studio del professor Michele Rondelli, nel silenzio di una sera d’autunno a Casteltermini, quando il freddo comincia a farsi sentire e il paese sembra ancora più vuoto.

Vincenzo, l’anziano dell’audio, esordisce dicendo di aver avuto un brutto presagio quel giorno, ma di questo non aveva detto nulla a suo padre, che lo precedeva nella discesa agli inferi della miniera. Poco dopo sarebbe avvenuta la più grande tragedia mineraria della storia dell’Italia unita: 89 morti, 34 feriti, e un sopravvissuto rimasto sepolto 13 giorni, Vincenzo. Registrato nel 1982 quando ormai l’anziano ha 80 anni, nell’audio l’uomo racconta tutto d’un fiato la sua storia, incastrando in maniera lucida i pezzi di ricordi limpidi come quadri dipinti, nonostante il buio che non gli permetteva di vedere nulla. La sua voce racconta di pianti, visioni e del dolore per aver perso il padre nel disastro.

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L’uomo sembra contento di aver trovato orecchie che lo ascoltano, tuttavia neanche dopo la sua morte nessuno ha riconosciuto il giusto valore della sua versione dei fatti, che non coincide con quella della sentenza: gli imputati tutti assolti per mancanza di prove. Resta attonito Rondelli che ascolta con cura ogni singola parola dell’audiocassetta ritrovata negli scatoloni impolverati di una sua alunna, Roberta Panepinto: tra dolore e commozione, la versione che aveva letto lui, nella sentenza e nei libri, era totalmente diversa. Vincenzo che aveva cominciato a lavorare a 10 anni, ricorda bene quel 4 luglio 1916, quando di anni ne aveva 14: «Prima di entrare ci facevamo il segno della croce, quel giorno ci siamo messi a lavorare tra terzo e quarto livello. Chi era incaricato per farlo doveva usare degli esplosivi per aprire un varco e poi saremmo usciti. Ma quando ha “sparato” ci sono stati tuoni fortissimi e la montagna si è spaccata a metà».

 

La sua verità, contenuta in quell’audio, suona strana anche al professor Rondelli, che per anni ha lavorato al suo romanzo tra storia e fantasia, “Il testimone sepolto” (uscito a marzo per Laneri edizioni). «Quando ho sentito quelle parole non ci credevo. Ho dovuto riscrivere gran parte del romanzo, nei libri e nelle sentenze c’era scritto ben altro», dice. Quelle parole stridono con la sentenza, su cui si era sempre basato per raccontare la “Marcinelle italiana”, di cui non si parla più da decenni e che non vide nessun colpevole. I punti che non tornano sono tanti, nella sentenza infatti si parla di un incendio che non è mai avvenuto: «Non c’è stato nessun incendio, i “surfarara” sono morti per asfissia», risponde Vincenzo alle domande che gli vengono poste.

 

Proprio il pretesto di un incendio portò gli ingegneri e gli esperti che si recarono sul posto subito dopo l’esplosione a chiudere la porta di ingresso per evitare la sua propagazione, segnando per sempre l’esistenza di coloro che erano rimasti vivi, come Vincenzo. In base alla sentenza, la porta fu chiusa dopo nove giorni, ma secondo Vincenzo avvenne prima. Dentro la miniera, infatti, non tutti erano morti con il crollo della galleria dovuto all’esplosivo, e quella porta sbarrata, nel buio della miniera, se la ritrova anche Vincenzo che dietro ai massi sentiva delle voci che chiedevano aiuto.

 

«Salgo al piano inclinato di Cozzo Disi e al livello zero ho trovato la porta murata. Chiedevo aiuto ma non mi rispondeva nessuno, neanche sapevo se era mezzogiorno o mezzanotte», spiega nell’audio. La sua voce non peserà sulla sentenza, dove, addirittura, tra errori grossolani, viene sbagliato anche il suo cognome, Bufera e non Vutera. La bufera, invece, sarebbe potuta nascere se quell’uomo fosse stato ascoltato prima.

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Preme sul tasto stop, il professor Rondelli. E riavvolge il nastro per riscrivere la storia nel suo libro: «Le persone erano morte per il gas, non c’era nessun incendio», spiega Vincenzo. Una indagine difficile non porterà a nulla, gli stessi periti infatti non arrivarono a trovare le cause del disastro, navigando a vista sulle possibili cause della morte degli zolfatai rimasti intrappolati nel buio della Cozzo Disi, non comprendendo neanche se il grisou, una miscela di gas naturale altamente infiammabile, si sia formato prima o dopo l’esplosione. In mancanza di prove, i giudici così archiviarono tutto come un incidente, dovuto a «cause naturali», come l’alta temperatura. Venne addirittura presa in considerazione l’eruzione dello Stromboli, avvenuta lo stesso giorno che, si legge nel dispositivo, «può aver esercitato una influenza nello sprigionamento del grisou nella miniera di Casteltermini».

 

Tutt’altra la versione del minatore superstite: «Le cause del crollo erano (da ricercare, ndr) dentro la miniera e non erano dovute a un terremoto o altre scosse. I crolli hanno ammazzato a tutti i “cristiani”». Il buio di quei 13 giorni lo ricorda bene Vincenzo, che conosceva come le sue tasche anche la miniera, dove lavorava suo padre Vito e dove da due anni si sporcava le mani nella pericolosa estrazione dello zolfo anche lui come “carusu”, bambino che già in tenera età veniva utilizzato per il trasporto dello zolfo. Già prima in quella miniera si erano verificati incidenti (nel 1913 erano morte 20 persone) e nel 1916 la sicurezza era scarsa e si moriva quotidianamente. Il profitto, infatti, era più forte di ogni sicurezza e non si poteva perdere tempo per calcolare quella che viene definita la «coltivazione» del giacimento, ossia le tecniche per estrarre in sicurezza i minerali.

 

Dopo l’assoluzione, nell’ultima relazione del 1917, cominciò ad emergere il dubbio che la miniera fosse stata «coltivata» in modo scriteriato: prima di scavare infatti, dovevano essere riempiti i vuoti creati dalla precedente estrazione, al fine di non far passare il grisou e non creare crolli. «La miniera non era affatto in condizione di perfetta stabilità», si legge nella perizia: «I vuoti erano irrazionali e contro legge e quindi anche ammesso che il disastro fu dovuto a sviluppo di grisou, tale gas non trovò nella miniera quella resistenza che avrebbe dovuto altrimenti trovare e il disastro sarebbe stato più limitato».

 

La sentenza di comodo fu quella che permise alla miniera di riaprire qualche anno fino agli anni Ottanta. Le perizie non hanno saputo raccontare il crollo come lo ha raccontato colui che è dopo essere rimasto dentro (alcuni riuscirono a scappare nel momento dell’esplosione) narra i momenti del disastro, precisando che gli altri morirono successivamente e non durante il crollo: «Abbiamo sentito i tuoni e tutti scappavano, uno mi è passato davanti, ha messo i piedi sopra di me ed è passato. Siamo arrivati alla parte di Serralonga (l’altra miniera) e ancora sentivamo tuoni. Al terzo livello c’erano tredici carrelli e tredici cadaveri, ma io non li vedevo perché c’era buio. Chiamavo mio padre e piangevo. Andando verso Serralonga ho trovato mucchi di cadaveri e al buio ho creduto di riconoscere mio padre. Allora mi sono rassegnato: era mio padre il cadavere».

 

Ad aiutarlo a uscire sarà poi una mosca (altra prova dell’ossigeno presente) che lui riesce a seguire con il ronzio nonostante il buio: così, dopo aver fatto avanti e indietro per chilometri, attraversando più volte i carrelli dove giacevano i cadaveri, riuscì a trovare la zona delle caldaie da cui intravide un raggio di sole che gli indicò l’uscita. Nessuno ormai lo cercava più: gli uomini dei soccorsi, dopo nove giorni, avevano chiuso la fessura per il rischio che i crolli provocassero altre esplosioni, verificatesi come conseguenza dei primi crolli, dovuti all’azzardo di continuare a scavare senza riempire i vuoti delle altre estrazioni.

 

«Ero stanco e mi sono coricato sopra una caldaia. Ho visto che c’era un raggio di sole e guardando da quella fessura ho visto il cielo, così ho preso una rotaia e l’ho messa in piedi per salire», conclude Vincenzo. La tesi delle negligenze è sostenuta anche dal professore Eugenio Giannone, storico ed esperto di miniere: «La storia la scrivono i potenti, è stato sempre così: la vita di un minatore, nell’Italia in piena guerra, non interessava a nessuno. In quella sentenza c’è il disprezzo della vita umana e quelle persone sono state le vittime sacrificali dei potenti di turno», dice oggi con amarezza. Vincenzo morirà dopo aver sperato che quel suo audio potesse far rivivere la verità, ma se lui è uscito dal buio dopo 13 giorni, la sua verità viene scritta dopo più di 100 anni dalla tragedia.