Cinquantasette giorni dopo Capaci viene ucciso Paolo Borsellino, l’alter ego di Falcone, arrivato a un passo dalla verità. E dopo la sua morte, colleghi e investigatori inscenano il gigantesco depistaggio utilizzando il falso pentito Scarantino

Una chiamata all’alba della domenica in cui l’avrebbero ucciso. Il procuratore capo Pietro Giammanco avverte l’incongrua urgenza di dirgli a quell’ora e in quel giorno che «sì, potrà finalmente indagare su Palermo. Così la partita si chiude». «Si apre, invece», è la replica gelida di chi sa di essere alla resa dei conti.

È cronaca di una morte annunciata quella di Paolo Borsellino. Mandato al patibolo in quelle stesse eccellentissime stanze in cui, sostenendo di indagare sulla sua fine, avrebbero poi inscenato per anni la più grottesca delle imposture. In un Paese che pure non si è mai risparmiato menzogne. Non arriva mai, invece, lo squillo che Borsellino ha atteso nei 57 giorni precedenti. Consumati invano nella disperata corsa per riscattare la morte dell’amico Giovanni Falcone. E salvare sé stesso. Né il Csm, né la procura di Caltanissetta, dove il capo Giovanni Tinebra, violando la legge, si è già consegnato, su indicazione del capo della polizia Vincenzo Parisi, al Sisde di Bruno Contrada, hanno sentito la necessità di ascoltarlo.

 

16,58 del 19 luglio di 30 anni fa, Palermo, via D’Amelio: budello nel ventre dell’Italia dell’eterno compromesso, strada cieca di una Repubblica che ancora oggi non sa trovare via d’uscita. Dista 500 metri dal vicolo Pipitone dove sbirri, spioni doppiogiochisti con licenza di uccidere, e padrini padreterni che li hanno a libro paga si danno appuntamento. Nel pomeriggio assolato di una città che si è già messa alle spalle l’orrore del cratere di Capaci, il bagliore di un’altra bomba inghiotte altre vite e verità. Con il procuratore aggiunto di Palermo muore la prima e unica donna delle scorte assassinata, Emanuela Loi, spedita in trincea al primo incarico. E muoiono Agostino Catalano, il veterano del gruppo, e i colleghi Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Si salva soltanto Antonio Vullo.

Speciale 1992
Il j’accuse di Fiammetta Borsellino: «L’omertà è nello Stato, questa è una certezza»
18/5/2022

A meno di due mesi dalla morte di Giovanni Falcone, tocca all’uomo che ne è da sempre l’alter ego. Dai tempi dell’oratorio alla toga. Dal concorso in magistratura all’ufficio istruzione. Dalla precipitosa reclusione all’Asinara per stendere l’ordinanza del maxiprocesso, al successo di una sentenza che sancisce la fine dell’impunità di Cosa nostra. Dalle accuse di protagonismo al cocente isolamento.

Non occorrono pronostici nella città che sussurra. Lo dicono nei vicoli, lo bisbigliano nei salotti, lo sanno bene i suoi colleghi, lo registrano le informative dei servizi. Borsellino, 52 anni, da uno procuratore aggiunto di Palermo, è il prossimo. I missini lo hanno pure votato come presidente della Repubblica, i ministri del governo Andreotti, Claudio Martelli, Giustizia, e Vincenzo Scotti, Interno - che lascerà il posto a giugno a Nicola Mancino, quando a Palazzo Chigi arriva Giuliano Amato - lo vorrebbero capo della Direzione nazionale Antimafia.

Eppure la Squadra Mobile di Arnaldo La Barbera e l’ufficio scorte non gli hanno rinforzato la tutela, non hanno piazzato una zona rimozione davanti casa della madre, niente rilevatori d’esplosivo, né bonifiche preventive. Non hanno preso uno straccio di precauzione. Lo mandano incontro ai boia quasi avessero deciso deliberatamente di farlo, tradendolo anche all’ultimo miglio.

Per Cosa nostra è un’altra spunta nell’elenco che Totò Riina ha stilato nel 1991 e che rivede subito dopo la strage di Capaci dando priorità assoluta a Borsellino. Il giudice, nell’estate del 1992, corre per capire. Riprende in mano l’indagine sugli appalti che ha già portato Falcone a ipotizzare una finanziarizzazione della mafia con l’ingresso in Borsa dietro il paravento di colossi dell’imprenditoria nazionale, come la Calcestruzzi di Raul Gardini. Scambia informazioni con il pool milanese di Tangentopoli. Ma corre anche il capo di Cosa nostra. Avverte la pressante esigenza di impedire che il giudice giunga alle conclusioni.

Serve un’altra strage, preventiva.
Poco prima di morire, nell’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo insabbiata per anni - la cui trascrizione è stata pubblicata da L’Espresso nel 1994 e la cui sintesi video, sepolta in Rai, sotto montagne di nastri, è rispuntata solo nel 2001 - Borsellino parla a lungo di un semisconosciuto Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore e del fratello di Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, ancora solo un magnate televisivo.

Lascia intendere che la storia dei traffici di droga lungo l’asse Palermo-Milano è una traccia da approfondire, forse per arrivare alle opache origini delle fortune immobiliari del patron del Biscione. Ha ascoltato il pentito Leonardo Messina. E, ingaggiando una battaglia con Giammanco che vorrebbe impedirglielo, sta già sentendo Gaspare Mutolo che a fine 1992 porterà in carcere proprio Bruno Contrada. Mentre Borsellino interroga in gran segreto il pentito viene chiamato al Viminale per l’insediamento di Nicola Mancino. Lì, con Parisi ci trova proprio lo 007, di cui Falcone diffidava e che Mutolo accusa. Contrada sa dell’interrogatorio e glielo dice.

Nel fumo dell’inferno di via D’Amelio, tra pezzi di corpi volati fin su nei balconi, tra macerie e macchine a fuoco, nello stordimento di un boato udito a chilometri di distanza, uomini in abito scuro e camicie inamidate, sbucati dal nulla con le tessere del ministero dell’Interno in mano, trafficano tra le lamiere, portandosi via l’agenda del giudice. Sparita dalla borsa di cuoio trafugata e ricomparsa, vuota, dopo un mese, sul divano dell’ufficio di La Barbera. Al centro Sisde di Palermo, in contemporanea, c’è un insolito traffico telefonico mai registrato prima di domenica.

Il resto, lo fanno scrivendo subito di una 126 rubata e imbottita di tritolo. Serve quel dettaglio per far combaciare ciò che hanno in mente. Prima ancora che gli artificieri si raccapezzino tra i rottami, hanno già confezionato la premessa per la più dubbia delle conclusioni. Si mettono a caccia dell’auto, scovano miracolosamente un’intercettazione. Individuano gli autori del furto e tirano fuori dal cilindro delle invenzioni un balordo di periferia, Vincenzo Scarantino. Uno spacciatore di droga che hanno già provato a far riconoscere al padre del poliziotto assassinato Nino Agostino nel 1989. Scarantino diventa il pupo del grande depistaggio. La Barbera e soci lo presentano come un mafioso, lo spediscono nel lager di Pianosa, lo imbeccano e lo istruiscono, lo minacciano e lo ricattano con la stessa determinazione con cui lo blandiscono. Schiere di pm, anche di esperienza, non capiscono nulla. I dubbi, se li hanno, li tengono per loro. Al massimo scrivono una nota a futura memoria per pararsi. Non sollevano alcun caso pubblico neanche quando, dopo le ritrattazioni di Scarantino che si pente di essersi pentito e poi si ripente, 11 innocenti finiscono al 41 bis e condannati per una strage di cui non sanno nulla.

A fermare pm e giudici abbindolati da La Barbera e dai suoi superiori, non serve constatare che la storia del furto della 126 fa acqua da tutte le parti. Né sono sufficienti le parole chiare degli altri collaboratori che bollano Scarantino come inattendibile. Il pupo vestito ha perfino raccontato che della strage Borsellino ascoltò il momento clou della decisione di ucciderlo, prelevando una bottiglia d’acqua dal frigo, durante un summit della cupola. Gli credono anche quando le difese degli 11, otto all’ergastolo, sollevano più di un interrogativo sulle note a margine dei verbali depositati che sembrano, e lo sono, istruzioni per l’uso. E continuano a farlo quando nel 1998 Gaspare Spatuzza, non ancora pentito, li mette in guardia su Scarantino. Bisognerà arrivare al 2008 e tornare a Spatuzza, il vero artefice del furto della 126, finalmente collaboratore di giustizia, per convincere tutti che Scarantino ha mentito. E con lui chi lo ha gestito. Qualcuno è morto e qualcun altro ha fatto carriera. I sepolti vivi nel girone del carcere duro vengono liberati. E sul perché si sia arrivato a tanto ci si trincera dietro il veniale peccato di ansia da risultato. E invece è stata una partita truccata contro la verità. Un “furto di verità”, l’ha definito il presidente della commissione regionale antimafia siciliana, Claudio Fava.

Non la cosca della Guadagna che con il falso di Scarantino si è presa il centro della scena ma i terribili fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio hanno gestito la strage Borsellino, occupandosene direttamente. E fino a quel punto solo uno, Giuseppe, è stato coinvolto. Il fratello Filippo, il contabile, l’ha fatta franca. E sarà poi proprio Giuseppe Graviano a raccontare, da mafioso non pentito in vena di contrattare a distanza la scarcerazione, di essere stato in affari con Silvio Berlusconi. Cerchio chiuso? Neanche per sogno. Perché sulla strada di un’indagine che finalmente dopo 14 processi sembra aver imboccato la via maestra si innesta la storia della trattativa. Ci credono i pm di Palermo, scettici quelli di Caltanissetta. Complice un clamore mediatico che si trasforma presto in coro da stadio, si finisce per sovrapporre i piani e confondere tutto. Borsellino morto per rimuovere l’ultimo ostacolo al compimento della trattativa Stato-mafia, questa diventa la tesi. Che però le sentenze rendono monca. La mafia trattò ma lo Stato, che pure arretrò davvero sul 41 bis, non rimane traccia. E le manomissioni? E l’agenda sparita? E la pista degli appalti? E il palazzo dei mafio-costruttori Graziano, di fronte al luogo della strage, con terrazzo attrezzato di paratie antisfondamento, ignorato?

Con i boia condannati, al massimo, si inseguono ora i tre poliziotti che per conto di La Barbera imbeccavano Scarantino. Nessuna colpa e, anzi, orizzonti di gloria per tutti quei pm che presero per oro colato le sue panzane. E che non chiesero mai a Tinebra conto del coinvolgimento di Contrada nelle indagini. Coperti da una coltre omertosa di «non ricordo», diventano ombre quanti nel Palazzo vollero Borsellino morto. Non sentendolo in quei 57 giorni e non convocando, dopo, il procuratore Giammanco per chiedergli perché non lo informò dell’allerta su un attentato e lo tenne lontano dalle indagini su Palermo. E perché quella telefonata, il più lugubre dei presagi, proprio il giorno in cui l’avrebbero ucciso.