L’Italia è il terzo polo al mondo, dopo Cina e Nuova Zelanda. Ma il disastro ambientale ha messo in ginocchio i coltivatori. E il caro energia ha dato il colpo di grazia (foto di Giovanni Culmone)

Ottavio Cacioppo guarda il tronco di alcune delle sue piante di kiwi. Mentre passeggia lungo i filari, tocca delicatamente le ramificazioni nodose, come se fossero le braccia di un parente in fin di vita. «Il cambiamento climatico è una sciagura per l’oro agricolo dell’Agro Pontino. Qui non piove da oltre 100 giorni e la siccità inaridisce il terreno», dice appoggiando il palmo della mano sul torace di legno della pianta. «Il ritardo della gemmazione è evidente perché doveva avvenire a marzo. E siamo ad aprile. Questa è un’anomalia».

 

Siciliano di nascita, trapiantato nella provincia di Latina: era il 1971 quando Cacioppo, all’epoca un giovane agronomo per la Cassa del Mezzogiorno, transitato poi all’ispettorato agricolo della Regione Lazio, si imbatté in una lettura insolita. Un articolo sul “topolino vegetale”, come i francesi chiamavano il frutto peloso, sconosciuto in Italia e coltivato dal 1969 nel Paese d’oltralpe. «Mi sono dato da fare per recuperare i germogli». Quelle radici furono le prime ad attecchire sul suolo tricolore. Un esperimento che avrebbe trasformato l’economia della piana, rilanciando il settore agricolo su scala globale.

 

Oggi l’Italia è il terzo polo al mondo dei kiwi dopo la Cina e la Nuova Zelanda. Ed esporta in tutto il continente. Secondo le stime riportate da Arsial nel 2020, il Lazio contribuisce al 33 per cento della produzione nazionale con 9.463 ettari di superficie coltivata. La varietà verde, Hayward, e la gialla “G3”, brevettata dal colosso neozelandese Zespri. Ma lo stravolgimento ambientale e la virulenza della “moria”, una malattia dalle origini oscure che si annida nelle arterie vegetali del frutteto, minano costantemente il podio italiano. Con un calo vertiginoso del 25 per cento. I dati accertano, solo per la provincia di Latina, la scomparsa di oltre duemila ettari di coltivazioni.

 

Nel 1973, tre produttori dell’Agro Pontino scommisero sul topolino vegetale. Poche piante e l’azzardo “esotico” per un territorio vocato agli ortaggi. Renato Campoli è uno di questi. Ai tempi era un operaio di fabbrica che nella sezione del Partito comunista italiano di Cisterna, comune della piana a nord di Latina, condivise il suo progetto con Bruno Villanova, l’altro precursore del kiwi. «Circa il 30 per cento delle coltivazioni è andato perso nella nostra area. Molti degli impianti sono totalmente compromessi ed altri cominciano ad avere problemi. In passato riuscivamo a garantire 400 quintali di kiwi per ettaro. Attualmente ci aggiriamo su un quantitativo di 250 quintali», spiega.

 

La notte prima, il figlio Domenico è schizzato via nei campi a pattugliare i filari, allarmato dalle temperature crollate sotto lo zero. «Ammesso che potessimo fare qualcosa», dice con un sorriso amaro. Nella porzione della sua azienda votata al biologico, oltre 10 ettari di kiwi dalla polpa verde e gialla, gli operai stanno montando delle strutture di protezione contro le calamità atmosferiche, perforando il terreno e coprendo con dei teli bianchi la schiera di piante da kiwi giallo, il frutto più pregiato e spendibile sul mercato. Il sistema di irrigazione è regolato da una centralina elettrica che dosa l’acqua e controlla l’umidità del suolo: i tubi corrono lungo le protesi di cemento. «Ci confrontiamo quotidianamente con il disastro ambientale. Dobbiamo difenderci in tutti i modi, però è sempre più difficile», dice Campoli.

Gelate tardive che addirittura «spaccano il tronco della pianta». Grandinate. “Bombe d’acqua”, piogge torrenziali di poche ore che ristagnano sul terreno. Ondate di calore improvvise che sfiancano il ciclo vitale del kiwi. Negli ultimi dieci anni, gli eventi catastrofici sono diventati la norma. Secondo il VI rapporto dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, pubblicato il 28 febbraio scorso, caldo e siccità porteranno a «perdite sostanziali in termini di produzione agricola per quasi tutte le aree europee».

 

«Per la prima volta il mondo agricolo da un unico nome a queste calamità: la crisi climatica», dichiara Fabio Ciconte, direttore di Terra!, associazione che indaga le connessioni della filiera agroalimentare con i diritti umani e i cambiamenti. «È necessario un ripensamento complessivo del modello produttivo e delle filiere agroalimentari. Attualmente l’agricoltura è responsabile per un terzo del riscaldamento globale. E contemporaneamente ne è vittima».

 

Esseri consapevoli delle trasformazioni ed adeguarsi. La ricerca è spasmodica di varietà resistenti alla batteriosi, alla cimice asiatica, al cancro del legno e alle malattie che si susseguono inarrestabili nelle campagne, anno dopo anno. Si sperimentano nuovi innesti, nuovi tipi di potatura e nuovi nutrienti. Tutto questo ha un peso economico non irrilevante. Secondo Ciconte, il costo medio per mettere a dimora un ettaro di kiwi è di circa 50mila euro. Le assicurazioni hanno adeguato le polizze, aumentando il prezzo delle coperture per eventi considerati oramai sistemici. «Il disastro ambientale riduce il nostro reddito e sopravvive soltanto chi ha le spalle larghe», commenta Campoli, gettando lo sguardo verso una catasta di scheletri lignei.

 

La moria e le bollette
Un cimitero di arbusti espiantati e martoriati da una malattia, il cui ingresso in Italia è datato al 2012, tra i filari del Veneto. Nel 2017 la moria è approdata nell’Agro Pontino: fa marcire l’apparato radicale della pianta del kiwi, logorando le radici e spaccando i capillari. Sono stati colpiti, su scala nazionale, oltre 8mila ettari e milioni di euro sono andati al macero. Stando alle analisi del Crea, la moria è una patologia “multifattoriale”, ovvero generata da diverse cause microbiologiche e agronomiche, alcune delle quali sarebbero legate agli smottamenti climatici in corso. Oltre che da pratiche agricole non appropriate. Una pandemia per cui non esistono vaccini o cure specifiche.

 

L’unico rimedio accertato è sradicare le colture infettate e metterne di nuove, con un esborso di soldi spropositato. Sono necessari cinque anni prima che un nuovo impianto entri in produzione. Bruno Villanova ne è consapevole. Nell’anno delle prime avvisaglie del morbo, una gelata “straordinaria” ha distrutto completamente il suo raccolto. A maggio, il 100 per cento del prodotto. «Quelle piante lì avevano quarant’anni», dice indicando il cumulo di corpi di legno, custodito ancora nel capannone.

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Il produttore, per fronteggiare l’avanzata della moria, ha avviato un protocollo sperimentale per ripristinare la fertilità naturale del suolo. Un metodo completamente biologico. L’acqua con cui abbevera i kiwi fermenta con batteri e funghi in alcune vasche. «Per decenni le mie piante non hanno avuto bisogno di nessun trattamento», dice Villanova mentre il sole primaverile disegna le gole agricole dell’Agro Pontino. «Vedremo quanta resa ci sarà quest’anno».

 

Il 2022, però, è l’anno della guerra di Vladimir Putin all’Ucraina e del caro energia. Un ulteriore fardello sulle spalle della produzione agricola. «Il costo del carburante è aumentato esponenzialmente. Il prezzo del gasolio agricolo è più che raddoppiato», afferma l’agricoltore, riferendosi al diesel che alimenta i motori che a loro volta danno vita all’intricato sistema di irrigazione che tiene in piedi la sua azienda. «Il nostro gestore dell’energia ci ha proposto un contratto a 28 centesimi a chilowattora. Il precedente contratto ammontava a nove centesimi», dice Campoli. «E siccome il kiwi non triplicherà il suo valore sul mercato, abbiamo dovuto fare delle scelte».

 

La tempesta perfetta
Il conflitto bellico, la crisi economica e le avversità climatiche. Ma non solo. «Il mercato pretende la perfezione estetica. E vengono scartati i frutti che per piccoli difetti di forma, dovuti al vento, al sole e alla grandine, non possono essere commercializzati», racconta il produttore. Per ogni raccolto, rivela Campoli, circa il 15 per cento dei kiwi è fuori dai parametri di vendita. Nonostante siano qualitativamente buoni.

 

La varietà verde sotto i 65 grammi è fuori dagli scaffali, quella gialla, invece, al di sotto degli 80 grammi va in discarica. I costi di produzione e di immagazzinamento, però, sono gli stessi. E infieriscono su un comparto già agonizzante. “Siamo alla frutta”, l’ultimo campagna dell’associazione Terra!, fotografa la situazione, additando i colpevoli: il calibro, la dimensione e la colorazione della buccia sono artificialmente delineati da regolamenti europei e imposti ai produttori dalle insegne della grande distribuzione organizzata e dai consorzi agricoli internazionali. La “pezzatura” è fondamentale per “piazzare” il prodotto: la prima categoria, l’estasi della bellezza, finisce nei supermercati italiani ed europei. La seconda, invece, fa fatica a posizionarsi negli store. La terza rimane sulla pianta o maciullata nell’industria di trasformazione in confetture e succhi. Oppure semplicemente buttata.

 

Per il kiwi giallo etichettato Zespri, soltanto la prima categoria può varcare i confini delle aziende agricole. Un meccanismo distorto che pone altri ostacoli al primo anello della filiera. «Non avrei mai immaginato che accadesse tutto questo», dichiara Cacioppo, immerso tra le sue piante, nell’angolo di mondo che si è ritagliato. «Se muore il kiwi, a morire è anche l’economia dell’intero territorio».