Il futuro del cibo
L’agricoltore va al mercato: vende meglio e di più, e l’ambiente ringrazia
Basta grande distribuzione. Sono sempre più numerosi i coltivatori che passano alla vendita diretta. I consumatori accorrono, il guadagno aumenta e l’inquinamento diminuisce
Racconta Alessandro Melis che all’inizio non ci credeva granché. «Quando mi hanno chiamato la prima volta per partecipare a un mercato contadino, ho aderito un po’ per inerzia». Oggi fa dieci mercati a settimana, ha assunto 18 persone per gestire la logistica e rivoluzionato completamente il modo in cui produce. La sua azienda, 40 ettari sparsi tra le colline dell’Ogliastra, dove coltiva ortaggi, uva da tavola, pesche, lavorava tradizionalmente con la Grande distribuzione organizzata (Gdo). «Chiedevano un prodotto standard e tiravano sempre sul prezzo», dice questo imprenditore 45enne mentre soppesa i grappoli maturi tra i filari ordinati della vigna. «Ormai ho invertito la tendenza: il mio principale canale sono i mercati. Ai supermercati do quello che ho in eccesso e lo faccio da una posizione di forza».
Quella di Melis è una delle 130mila aziende che partecipano ai cosiddetti “mercati contadini”. Una realtà che si sta affermando sempre di più nel comparto agro-alimentare italiano, promuovendo non solo una modalità alternativa di commercializzazione del cibo ma anche stimolando nuove produzioni. «In questo modo accorcio la filiera ed evito le principali storture: pensa che una volta ho visto l’uva che avevo consegnato alla piattaforma della Gdo andare prima sul continente e poi tornare in Sardegna», ricorda ancora scandalizzato.
Il fenomeno sta conoscendo una crescita vorticosa: tra il 2020 e il 2021, malgrado la pandemia, sono stati aperti 69 nuovi mercati con il marchio “Campagna amica” della Coldiretti, la confederazione agricola che guida questa rivoluzione gentile. «Parliamo di un giro d’affari di 3 miliardi di euro l’anno e di una platea di 16 milioni di consumatori», sottolinea Carmelo Troccoli, direttore della Fondazione Campagna amica.
Vero e proprio fenomeno di costume, testimonianza della sempre maggiore richiesta di cibo salubre da parte dei cittadini, il mercato contadino permette di colmare la distanza fisica tra chi produce il cibo e chi lo consuma. Ai produttori consente di aumentare i propri margini, restituendo dignità a un lavoro agricolo che negli ultimi anni ha sofferto un pesante calo di redditività. «Da quando faccio i mercati, il mio fatturato è aumentato del 400 per cento», racconta Filippo Vargiu, che conduce una piccola azienda biologica a Soleminis, in provincia di Cagliari.
«Noi vendiamo al consumatore allo stesso prezzo finale, ma eliminando tutte le intermediazioni guadagniamo parecchio di più». Non si tratta tuttavia solo di aumento del reddito, che pure è un aspetto fondamentale. La vendita diretta consente agli agricoltori di modificare il proprio modo di rapportarsi agli strumenti di produzione, di stabilire un’altra relazione con la terra: «Negli ultimi anni ho diversificato parecchio, distribuendo meglio il lavoro nei campi e mettendo a dimora ortaggi che altrimenti non avrei saputo a chi vendere», aggiunge Vargiu.
«Siamo artigiani del gusto e custodi della biodiversità», gli fa eco l’imprenditore umbro Francesco Capalbo. A Montesperello di Magione, poche centinaia di metri dal lago Trasimeno, la società agricola “L’orto del mi’ nonno” richiama fin dal nome il desiderio di tornare a un’agricoltura meno impattante, alle filiere corte, ai ritmi colturali dettati dalle stagioni. Già da studente di agraria, questo ragazzo oggi ventiseienne aveva intuito che il futuro consisteva in una rivisitazione del passato in chiave moderna. Ha quindi convertito l’azienda di famiglia al biologico.
Ha sperimentato sementi proprie non ibride ed è oggi impegnato in un recupero di varietà antiche. Soprattutto, ha puntato in modo netto sul rapporto con i consumatori: la sua azienda fa esclusivamente vendita diretta. I suoi sempre più affezionati clienti vengono a comprare i prodotti in un fabbricato di legno a due passi dai campi e, quattro giorni a settimana, nel bancone che gestisce insieme alla sorella al mercato dei produttori di Perugia.
«I nostri acquirenti sanno che il prodotto è freschissimo. Così si è creato un rapporto di fiducia», dice mentre mostra i pomodori e le melanzane che spuntano rigogliosi dalle piante, l’oliveto e il frutteto sulla collina. Proprio questo rapporto di fiducia gli ha permesso di fare cose fuori dal comune. Qualche tempo fa ha iniziato a coltivare la zucchina lunga calabrese, del tutto sconosciuta in Umbria. «All’inizio la regalavamo ai clienti per farla conoscere. Ora è quasi la cosa che vendiamo di più», racconta soddisfatto.
Stessa predisposizione a unire il moderno con la tradizione la mostra Valentina Stinga, giovane direttrice del mercato coperto di Napoli, che ha aperto nel giugno 2020 a due passi dallo stadio San Paolo. Dopo aver studiato market management alla Bocconi, questa trentunenne ha deciso di tornare a casa a Sorrento e dedicarsi all’agricoltura. Sui suoi tre ettari in costiera coltiva ortaggi e frutti, che rivende on-line e, insieme a quelli di altri produttori della zona, in un banco al mercato.
«Portiamo qui a Napoli i prodotti della nostra terra. Questo luogo è un hub per chi cerca l’eccellenza della Campania, sia i semplici consumatori che gli operatori della ristorazione». Qui, nel più grande mercato contadino coperto del Sud Italia, i banconi sono perennemente affollati, tra venditori di mozzarelle di bufala, frutta, ortaggi, olio, carne, pesce e persino un’azienda di Caserta che offre lumache e prodotti derivati per il consumo alimentare e la cosmesi.
In virtù della relazione diretta con i consumatori, i mercati contadini sono diventati occasione per contrastare una certa standardizzazione delle produzioni e dei gusti promossa negli ultimi anni dalle insegne della distribuzione.
Luca Mattozzi è l’anima del mercato più famoso tra quelli di Campagna Amica, quello del Circo Massimo, che ogni sabato e domenica accoglie migliaia di persone nel centro della capitale. Mattozzi, che ha un’azienda agricola tra le colline della Sabina, è un antesignano della vendita diretta. All’inizio la faceva all’antica, con un gazebo a Rieti. Poi, fin dalla sua apertura, ha aderito a quello del Circo Massimo. Anche per lui il rapporto con il cliente è cruciale, non solo per vendere i propri prodotti ma anche per creare un rapporto emozionale tra chi coltiva e chi consuma. «Una signora anziana una volta mi ha detto una cosa che mi ha commosso: che le vendevo ricordi, sapori della sua infanzia che aveva dimenticato».
Il consumatore tipo del mercato contadino cerca proprio quello: la specificità, il prodotto non omologato, il sapore genuino. Ma anche la certezza della provenienza. Lo mette in evidenza un’indagine dell’istituto Ixè, che ha rilevato come per la maggior parte degli intervistati è importante avere un contatto diretto con i produttori ma anche sapere che le aziende siano controllate.
Il rapporto diretto ha anche un impatto positivo sull’ambiente. Dice ancora Mattozzi: «Io non ho scarto, vendo tutto quello che produco. Non so nemmeno cosa sia il calibro della frutta», dice riferendosi ai rigidi protocolli dei supermercati, che non accettano frutti con difetti estetici o di calibro (diametro) troppo piccolo. «Raccontando le mie produzioni, faccio capire al consumatore di città che la natura è varia e imperfetta ed è innaturale aspettarsi che i frutti siano tutti uguali».
Considerazioni simili le fa Elisa Scotti, titolare con il marito di una delle più grandi aziende agricole della provincia di Milano: 120 ettari a sud-est della città, in cui produce frutta e ortaggi, insieme a un grande allevamento di galline ovaiole. Oltre ad avere rapporti con alcune insegne della Gdo, l’azienda partecipa a sette mercati contadini, fra cui quello aperto da poco a Porta Romana. «Facciamo 65 referenze di orto-frutta durante tutto l’anno. I nostri clienti hanno sempre la certezza che il prodotto è stato raccolto la mattina stessa o il giorno prima».
Proprio grazie ai mercati di Campagna amica, dove intercetta una clientela più attenta a cui può raccontare le sue modalità di produzione, Scotti ha deciso di lanciare una linea biologica «cosa rara in Lombardia») e coltivare prodotti più di nicchia - come le fragole che sviluppa in serra e vende con il fortunato slogan “brutte ma buone”. «Quando le porto al mercato, finiscono in un batter d’occhio».
La vendita diretta ha poi stimolato un’altra evoluzione di non poco conto: quella da produttori a trasformatori. Sono molti gli operatori che hanno aperto laboratori di trasformazione, in cui producono succhi, pesti, pasta, formaggi. Sono riusciti così a chiudere le filiere, ovviando a quello che è uno dei principali difetti del comparto agricolo italiano: la scarsa remunerazione delle materie prime.
Un esempio emblematico è quello di Maria Atzeni. Con il suo gregge di 400 pecore a Sant’Andrea Frius, 40 chilometri a nord di Cagliari, questa pastora ha capito da tempo che conferire il latte alle industrie casearie l’avrebbe messa in una condizione difficile, in cui sarebbe stata soggetta alle oscillazioni incontrollabili del mercato. Così ha aperto un piccolo caseificio artigianale e cominciato a produrre formaggi in proprio, che vende nei mercati.
Quando ha visto le immagini scioccanti del febbraio 2019, con i suoi colleghi che versavano il latte in strada per protestare contro il prezzo troppo basso, ha capito che la sua era stata la scelta giusta. Vendere direttamente le ha permesso non solo di avere un’adeguata remunerazione, ma anche di sperimentare e rivitalizzare tecniche antiche, come la stagionatura in argilla o la “casada”, il dolce che si fa con il latte colostro. I consumatori apprezzano e la premiano. «Perché io conosco le mie pecore una a una, so cosa mangiano e cosa c’è nel mio formaggio. E i miei clienti sanno che lavoro in questo modo, perché glielo racconto di persona».
In un’epoca in cui le filiere alimentari sono sempre più globalizzate e anonime, il successo dei mercati contadini sembra legato proprio a questo aspetto: mettendoci la faccia e raccontando le proprie produzioni, i contadini-venditori contribuiscono a restituire al cibo quell’identità che aveva perduto - e che una buona fetta di cittadini consumatori reclama sempre di più.