Il grande processo contro Cosa Nostra segnò un punto di non ritorno, da cui Falcone raccolse però solo amarezze e attacchi. Mentre il suo lavoro al ministero per verificare il lavoro alla Cassazione di Corrado Carnevale viene spesso dimenticato, nonostante abbia avuto effetti fondamentali

Capaci, 23 maggio 1992. Trent’anni fa. Cosa nostra, a quei tempi la mafia più temibile e feroce, polverizza con una carica esplosiva potentissima un lungo tratto di autostrada mentre vi transitavano le auto di Giovanni Falcone e della scorta. In questo «attentatuni» (così nel gergo dei criminali) oltre a Falcone e alla moglie, Francesca Morvillo, vengono uccisi i poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

 

Falcone, oggi da tutti giustamente celebrato come un eroe, in realtà diventa tale soltanto dopo morto. In vita era stato aggredito pesantemente con infami campagne di delegittimazione/diffamazione che erano riuscite a distruggere il suo metodo di lavoro antimafia - vincente - e a dissolvere il pool di magistrati palermitani che lo applicava. Umiliazione dopo umiliazione (un percorso iniziato quando il pool cominciò a occuparsi non solo di «malacarne», ma anche di imputati eccellenti come Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania, oltre che del golpe Borghese), Falcone fu costretto a lasciare Palermo per riparare a Roma, presso il ministero di Grazia e giustizia (1991).

 

Eppure, per le persone oneste era stato il campione indiscusso dell’antimafia in quanto motore principale del maxiprocesso. Un capolavoro investigativo giudiziario, una svolta di portata rivoluzionaria nella storia giudiziaria e non solo del nostro Paese. Maxi, il processo, non perché, come è stato malignamente detto, Falcone, Borsellino e gli altri del pool volessero finire sotto i riflettori. Maxi perché maxi era stata l’impunità di cui Cosa nostra aveva goduto per decenni e decenni, posto che secondo ogni sorta di notabili, persino procuratori generali, la mafia neppure esisteva. Il maxiprocesso segna la fine del mito della invulnerabilità di Cosa nostra. Si dimostra, nel rispetto delle regole, che Falcone aveva ragione quando diceva che la mafia è una vicenda umana come tutte le altre, e come ogni altra ha un inizio, uno sviluppo e può avere anche una fine.

Gian Carlo Caselli

Al ministero, Falcone, tenace e coraggioso come altri mai, non si dimise certo dall’antimafia ma continuò ad occuparsene. Tra l’altro con un intervento non molto conosciuto ma decisivo per l’esito finale del maxi, vale a dire un monitoraggio (rientrava tra le sue competenze) sulle pronunce della prima sezione della Cassazione penale, alla quale venivano assegnati in pratica tutti i processi di mafia di una certa importanza. Preoccupava la nomea di «ammazzasentenze» che aleggiava sul presidente della sezione, Corrado Carnevale. I risultati del monitoraggio evidenziarono una serie di decisioni - talora motivate con minuscoli e discutibilissimi vizi di forma - che potevano corrispondere a tale nomea. Emerse inoltre che Carnevale aveva creato, all’interno della sua sezione, un gruppo di consiglieri “fedeli”, accomunati dall’adesione a un orientamento giurisprudenziale radicale, sedicente quanto astrattamente garantista, assumendo quindi una posizione egemonica che gli consentiva di determinare l’esito delle decisioni. Altre anomalie furono rilevate con riferimento alla costante ricorrenza, in un ingente numero di processi, di un ristrettissimo numero di legali.

 

Sta di fatto che, quando il maxiprocesso approdò in Cassazione, il primo presidente Antonio Brancaccio introdusse la novità di un sistema di rotazione, assegnando così il maxi non a Carnevale ma ad Arnaldo Valente. Nomen omen? Una coincidenza? Sia come sia, alla rotazione fece seguito una sentenza (30 gennaio 1992) che confermò l’impianto accusatorio e quindi le pesanti condanne comminate nel maxi. Era la prima volta che venivano condannati in Cassazione, in via definitiva ed irreversibile, mafiosi di ogni ordine e grado.

 

Una vera disfatta per il vertice di Cosa nostra, che si era speso nel garantire l’annullamento delle condanne. Un traumatico “passaggio di fase” rispetto all’ormai consolidato rapporto di scambio tra Cosa nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di faccia e di credibilità, con la prospettiva che la stagione dei «processi aggiustati» e dell’impunità fosse finita.

Editoriale
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13/5/2022

Cosa nostra reagì con una feroce rappresaglia, contro gli amici che l’avevano tradita e contro i suoi irriducibili nemici, i «responsabili» del maxiprocesso, colpiti con la strage di Capaci e neanche due mesi dopo con quella di via d’Amelio, dove furono massacrati Paolo Borsellino e gli agenti che erano con lui. Le due stragi, per il nostro Paese, sono state come l’abbattimento delle Twin Towers in Usa (Andrea Camilleri).

 

Quanto a Corrado Carnevale, la procura di Palermo (che ho diretto dopo le stragi del ’92 avendo chiesto al Csm di esservi trasferito da Torino) ha avviato un’indagine contestando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1992. Il processo (come spesso accade quando si tratta di imputati eccellenti) ha un iter altalenante: assoluzione in primo grado, condanna in appello a sei anni di reclusione. Per condannare, la Corte di appello considera fondamentali, tra l’altro, le testimonianze di tre magistrati della sezione di Carnevale, ravvisandovi «formidabili elementi di riscontro individualizzante a carico dell’imputato». Ma la Cassazione decide che tali testimonianze non sono processualmente utilizzabili, per cui annulla la condanna e rimanda tutto alla Corte d’appello, creando le premesse per una inevitabile assoluzione.

 

Poco importa che una successiva sentenza della Cassazione abbia completamente ribaltato le cose stabilendo che «l’obbligo di denunzia che grava sul pubblico ufficiale (compresi i componenti di un collegio giudicante) fa venir meno il vincolo del segreto». Poco importa perché intanto, per Carnevale, i giochi erano irreversibilmente fatti. Parentesi: nel fascicolo/schedatura previsto nella riforma Cartabia, a chi spetterebbero - nella vicenda ora riassunta - i punti a favore e a chi invece quelli di demerito?