Dopo la bufera scatenata con le parole di Elisabetta Franchi raccogliamo la testimonianza di Roberta, che seleziona curriculum per le aziende: «Succede sempre, scegliere i candidati in base al sesso è una pratica comune»

«Ti sono mai state fatte domande sulla tua volontà di sposarti o avere figli durante un colloquio di lavoro?». Il 27 per cento delle donne intervistate ha risposto «sì». Una donna su tre. È quanto emerge dall’indagine La cultura della Violenza realizzata dall’Ong WeWorld in collaborazione con Ipsos. Anche se discriminare un lavoratore in base al genere è scorretto, viola la dignità della persona, i diritti umani fondamentali, la normativa italiana e ha anche un forte impatto negativo su economia e società, succede troppo spesso. «Più o meno nella metà dei casi in cui le aziende ci contattano per la ricerca del personale, mi viene chiesto di indagare sulla vita privata delle candidate», racconta Roberta che lavora come recruiter in un’agenzia per il lavoro che ha sedi in tutta Italia.

 

 

 

 

Roberta è un nome di fantasia. All’agenzia spetta la pubblicazione e la diffusione dell’annuncio per l’occupazione e la prima fase di selezione: «Le aziende mi dicono che preferiscono uomini, oppure donne molto giovani, che sono più flessibili negli orari, o che abbiano superato i 40 anni. Così credono di evitare il “rischio maternità”. Di solito questo tipo di richieste avviene per l’assunzione di persone con contratto indeterminato o, comunque, per lunghi periodi». Roberta si è sempre rifiutata di fare domande su figli e relazioni personali. Non ha mai tolto a nessuna la possibilità di arrivare al colloquio con l’azienda per il sesso, l’età o lo stato civile. «Ma è l’impresa che prende la decisione finale. In molti casi i feedback ambigui che ho ricevuto sui candidati mi hanno fatto capire quanto spesso le lavoratrici siano valutate con parametri differenti da quelli di un uomo».

 

In questi giorni di polemica, dopo il discorso che Elisabetta Franchi ha tenuto al convegno di PWC Italia e Il Foglio, qualcuno si è mostrato stupito per la desolante considerazione delle donne che l’imprenditrice della moda ha espresso. Ma, come spiega Roberta, la discriminazione che subiscono le lavoratrici è una pratica che avviene nella normalità e nel tacito assenso generale. Anche il suo. «Quello che faccio, però, è ignorare le condizioni discriminatorie che mi vengono imposte dai datori di lavoro. Sarà pure silente ma la mia è una battaglia quotidiana. Una continua mediazione tra la realtà del settore dell’imprenditoria italiana e il mondo che vorrei, di pari opportunità, con servizi, tutele e garanzie per le donne che vogliono lavorare». Sono pochi, invece, i timori che si fanno i datori di lavoro nell’esplicitare che una trentenne, che magari ha anche un compagno, è meno gradita di un uomo. «Ci è piaciuta molto ma abbiamo delle perplessità», scrive via e-mail all’agenzia il proprietario di un’azienda metalmeccanica, dopo aver fatto il colloquio a una candidata molto qualificata secondo Roberta. Per poi chiarire al telefono: «Ha 37 anni ed è fidanzata, la probabilità che abbia un figlio a breve è alta, no?».

 

Così mentre una lavoratrice dovrebbe «avere gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», come scritto nella Costituzione (articolo 37), nella vita vera, una donna è un problema perché potrebbe avere dei figli. Poco contano la singola opinione in merito, le aspirazioni personali, le qualifiche. Pare che per tante persone “donna” sia sinonimo di “madre”, meglio se disposta a essere l’unica a sacrificarsi per il bene della famiglia. Eppure, nonostante questo infondato pensiero comune, le condizioni che, sempre secondo l’articolo 37 della Costituzione, dovrebbero garantire alla lavoratrice «l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» non esistono. In Italia, il 42,6 per cento delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, si legge nel report Le Equilibriste di Save The Children.

 

La fotografia di un Paese che a parole sostiene di voler «liberare il potenziale delle donne per tornare a crescere», come ha detto la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, ma che nella pratica resta in silenzio quando dovrebbe intervenire. Arrecando danno non solo alla persona singola ma anche alla salute della società, lacerata dalle disuguaglianze, alla crescita economica e al benessere nei luoghi di lavoro sempre più compromessi dalla retorica del sacrificio.