La storia
«Ero una ragazza, sono Edoardo, sarò gondoliere»
Alla nascita gli hanno assegnato il genere femminile. A 16 anni lascia il fidanzato e sceglie Claudia. «Grazie a lei ho capito. C’è sempre qualcuno disposto ad accettarti»
La vita di Edoardo Beniamin a soli 22 anni può essere paragonata al vogare dei gondolieri che nella sua Venezia, con mani salde, equilibrio e forza scivolano sull’acqua dei canali. Una traversata dentro i generi. A 16 anni lascia il suo ragazzo e si innamora di Claudia. Edoardo, a cui era stato assegnato il genere femminile alla nascita, per breve tempo inizia a identificarsi come ragazza lesbica fino all’arrivo di una nuova consapevolezza: «Grazie a Claudia ho capito. Eravamo tornati da una gita con la scuola. Parlavamo molto, le rivelavo i miei dubbi, le mie paure, i miei segreti. Chiedevo: anche tu non vuoi mai spogliarti? Anche tu non vuoi mai guardarti allo specchio? Anche tu in doccia non guardi mai in basso? Sono state conversazioni molto profonde, scendevano nell’anima. Intrecciavamo i nostri vissuti, i nostri racconti di infanzia. Lei mi ha fatto ragionare sul fatto che potessi soffrire di incongruenza di genere».
Succede. Come spiega Guido Giovanardi, psicoterapeuta, dottore di ricerca presso il dipartimento di Psicologia dinamica e clinica, all’università La Sapienza di Roma: «Per un insieme molto complesso di fattori (biologici, psicologici e sociali), il genere percepito non corrisponde al sesso biologico, per cui si parla, usando la terminologia dell’ultima edizione dell’Icd - il manuale dell’Organizzazione mondiale della Sanità - di incongruenza di genere e di identità transgender. Tali condizioni, considerate un tempo patologiche (come del resto anche l’omosessualità), oggi, dopo anni di ricerche, sono riconosciute come normali varianti identitarie, che non vanno interpretate come disturbi mentali. Se presentano aspetti psicopatologici, essi sono dovuti nella maggior parte dei casi a un senso di sofferenza (o disforia) legata al corpo (che si sente non corrispondere a una percezione profonda) e alle esperienze di discriminazione e stigma che le persone transgender subiscono fin da piccole. Le ricerche longitudinali hanno infatti dimostrato che i percorsi di transizione sociale (ovvero l’assunzione di un nome e pronomi, o la scelta degli abiti, legate al genere percepito e non al sesso biologico), o di terapia ormonale e riassegnazione medico-chirurgica, determinano un netto miglioramento del benessere psicologico e una significativa diminuzione della sofferenza individuale».
Per diminuire quella sensazione di inadeguatezza e sofferenza, Edoardo inizia un viaggio che parte dal linguaggio che, come sempre, porta alla luce quello che non vogliamo vedere: «Non sapevo nulla della comunità trans. Quando la mia ragazza cercava di farmi conoscere questo mondo sconosciuto le rispondevo: non voglio essere un uomo a metà. In maniera inconscia avevo assimilato la mentalità transfobica dei miei parenti che non avevano gli strumenti per codificare il mio essere. Poi nel 2018 ho iniziato a informarmi, ma soprattutto ho conosciuto la comunità transgender. Ho fatto amicizia con Ethan, un ragazzo trans che mi ha chiesto come volessi essere chiamato, per la prima volta. Risposi senza esitare: “Edoardo”, “Ok, Edo”. Così, tranquillamente. Ho provato una sensazione di benessere, di pace con me stesso finalmente».
Claudia, Ethan. Gli incontri che cambiano la vita. Il moto ondoso che avvicina Edoardo all’approdo: «Quando ero piccolo ricordo che dicevo spesso a mia madre che volevo i vestiti da maschietto. Amavo giocare con i bambini. Ma poi ho lasciato che tutto il mio essere affondasse. Ho smesso di ascoltarmi. È stata Claudia la chiave di tutto. Lei mi ha aiutato». Vestiti, giochi, colori. Cosa vuol dire la mascolinità per un uomo trans. «È un concetto che ho maturato nel tempo. Prima non sapevo neanche come esserlo. Come si fa ad “essere maschi”? Finivo per copiare gli stereotipi del maschio. Adesso sono semplicemente me stesso. Ho capito che non esiste un modo unico per abitare il genere. Sono un maschio anche se mi piace portare lo smalto. Inizialmente era lo sguardo degli altri a condizionarmi: ma se sei un maschio perché metti lo smalto? Mi riprendevano. E adesso mi sono liberato da queste gabbie di stereotipi. Bisogna farlo per essere veramente se stessi».
Figlio di un gondoliere, l’approdo lo ha portato a lasciarsi alle spalle alcuni legami familiari e coltivarne nuovi: «Mio padre mi accettava come ragazza a cui piacciono le ragazze, mia madre no. Quando ho fatto coming out come ragazzo trans la situazione è cambiata, mia madre mi ha accettato subito, mentre mio padre continuava a ripetermi: sai che non si torna indietro. Il rapporto con lui è sempre stato abbastanza altalenante. Un mese ci parliamo e uno no, non si può nominare la questione transgender. I miei sono separati e adesso stanno divorziando. Mia madre si rivolge a me chiamandomi Edoardo, mio padre mi include con mia sorella più piccola e dice: le mie figlie. È qualcosa che mi provoca rabbia e fastidio, certamente, ma che non lascia poco dolore. Non c’è rispetto e non c’è ascolto. Per fortuna ho degli amici meravigliosi che mi hanno da subito accettato».
Il sogno di Edo è quello di seguire le orme del padre. Vogare nei canali, trasportando i turisti alla scoperta della bellezza della Serenissima. L’associazione Gondolieri di Venezia conta 433 licenze, cinque di queste sono concesse a donne. Più che un sogno quello di Edo è un progetto che lo renderebbe il primo gondoliere transgender: «Ho frequentato l’Istituto turistico, conosco le lingue e prima della pandemia facevo la guida. Ho tutte le carte in regola per diventare gondoliere. I figli dei gondolieri, appena usciti da scuola, iniziano con il papà. Io con la mia situazione, diciamo che non ho potuto farlo. Mio papà non se lo aspettava di avere un figlio e quindi adesso devo mettermi sotto iniziare a vogare bene. Frequentare di più l’ambiente dei gondolieri che sì, lo so, può essere un ambiente abbastanza machista ma io resto il figlio di Paolo il gondoliere, vengo accettato. Alla fine, Venezia accetta tutti».
Edoardo parla dalla sua stanza dopo aver subito l’operazione di creazione del torace maschile, dolorante ma sorridente: «Oggi sono felice. Per la mia vita, per la mia ragazza. Fosse per me la sposerei domani. A Venezia, naturalmente. Anche se lei non ama questa città quanto me», scherza. La sua è una storia, spiega Edoardo stesso, che racconta la difficoltà a rimanere soli con sé, a guardarsi, a specchiarsi nel silenzio e ad ascoltarsi, finalmente, e poi dialogare con genitori, amici e compagne: «L’Italia è proprio come mio padre. Gli spieghi le cose e si gira dall’altra parte. Eppure, quando mi dicono che sbaglio qualcosa, cerco di capire, mi metto in discussione. Molte persone fanno fatica a farlo. Soprattutto per quanto riguarda la questione trans, non capiscono. Siamo nel mese del Pride, vorrei che le nuove generazioni potessero fare questo: ascoltarsi di più. Io non mi sono mai ascoltato anche quando mi sono scoperto. Mi sono fatto male da solo tantissime volte. Invece ascoltarsi è la cosa più importante. So che è difficile parlarne con qualcuno, spesso ho pensato: non mi accetterà mai nessuno. E poi invece qualcuno c’è sempre. Quando volevo buttarmi giù bastava poco, bastava che le persone iniziassero usare i pronomi giusti. Anche solo questo. Condividere questa traversata insieme è davvero la cosa più bella e più importante»