La legge sullo Ius scholae deve essere approvata subito. Perché solo nel nostro Paese vengono imposte delle regole così stringenti e burocratiche per ottenere la cittadinanza. Basta guardare gli altri Stati europei per rendersene conto

Mai come stavolta rinviare vorrebbe dire rinunciare. Se la riforma del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, che porta il nome di “Ius Scholae”, non venisse approvata prima della pausa estiva dall’aula della Camera, che la riceverà il prossimo 24 giugno, e se il Senato non darà il sì definitivo entro dicembre, non potremo certo aspettarci che vada in porto nella prossima legislatura, con il quadro politico che si preannuncia. Una riforma, abortita già due volte, nel 2015 e nel 2017, attesa da un milione di ragazzi, italiani di diritto e non di fatto, che ha appena ricevuto l’applauso dei nostri studenti: in un sondaggio condotto da “ScuolaZoo” su un campione di 22 mila di loro, di età compresa fra i 14 e i 19 anni, ben l’85 per cento ha risposto di essere favorevole. E a maggio è arrivato il totale consenso della Siped, la società che riunisce i docenti di pedagogia delle università italiane.

 

Ma prima di ricordare in cosa la nuova versione della riforma consista, è doveroso sottolineare come da trent’anni il nostro Paese abbia una delle leggi europee più spietate nei confronti dei minori stranieri che aspirino a diventare cittadini, la n.91 del 1992, approvata purtroppo all’unanimità dal Parlamento di allora. Ai ragazzi vengono imposti infatti 18 anni di residenza ininterrotta dalla nascita in Italia e, una volta maggiorenni, la cittadinanza non viene nemmeno recapitata a casa. No, debbono presentarne domanda, a pagamento, affrontando le incognite della nostra burocrazia.

Diritti
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I deputati prima, e poi i senatori che saranno chiamati a decidere, debbono essere coscienti di quanto il confronto con altre legislazioni ci riempia di vergogna. Il bimbo o la bimba nati in Spagna da una famiglia immigrata diventano cittadini iberici dopo appena un anno di residenza. In Germania dal 2000, con Angela Merkel al governo, i figli degli stranieri sono tedeschi alla nascita, se almeno uno dei genitori vi risieda legalmente da otto anni e abbia un permesso di lungo soggiorno. In Grecia basta che i genitori risiedano da cinque anni, perché il figlio ivi nato sia cittadino. Se invece vi è giunto da piccolo, diventerà cittadino dopo aver frequentato con successo sei anni di scuola. In Francia nel 1998 sono state introdotte tre diverse modalità: che un genitore possa reclamare la cittadinanza quando il minore nato sul suolo francese ha 13 anni, a condizione che ne abbia trascorsi cinque su quel territorio. O che sia il ragazzo a farne domanda, all’età di 16 anni, o infine lasciare che la cittadinanza arrivi in automatico a 18 anni, sempre col vincolo di averne trascorsi cinque in Francia, nemmeno consecutivi, dall’età di 11 anni in poi.  

 

I trent’anni di questa guerra contro il processo di integrazione di ragazzi che studiano assieme ai nostri, si riconoscono nel tricolore e tifano per le nostre squadre di calcio, potrebbero finire se il testo unico sullo “Ius Scholae”, presentato dal presidente della Commissione Affari Costituzionali, il 5Stelle Giuseppe Brescia, venisse approvato.

 

Vi si prevede che un bimbo nato in Italia da genitori stranieri, che siano residenti regolari, possa divenire italiano dopo aver frequentato un ciclo quinquennale del sistema nazionale di istruzione, e ciò su richiesta di entrambi i genitori. Quindi, come minimo, alla fine della quinta elementare. Stessa possibilità per i bimbi non nati nel nostro Paese, ma giunti entro e non oltre i 12 anni d’età. Assieme al ciclo quinquennale, valgono anche percorsi triennali o quadriennali di formazione professionale.

 

Ma, tempi ristretti a parte, grava l’incognita di oltre 400 emendamenti, presentati dalla Lega e da Fratelli d’Italia, molti a solo scopo dilatorio. Serve un atto di responsabilità dei partiti. Sollecitato, magari, dal Capo dello Stato. Adesso, o riforma addio.