«Un disegno di legge di riforma articolato e ampiamente condiviso». Sono le parole della ministra Marta Cartabia, pronunciate in aula al Senato prima dell’inizio delle dichiarazioni di voto sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Parole che non trovano eco nelle stanze di giustizia italiane. Sulla riforma l’Unione camere penali è tiepida («lontana dalle esigenze reali»), l’Associazione nazionale magistrati è contraria, con i togati che la bollano come pericolosa. Solo David Ermini, vice-presidente del Csm, la elogia. Insomma, la riforma invocata, voluta, attesa da tutti - ora che c’è, non piace a nessuno.
«Non solo non risolve i problemi della giustizia ma li aggrava». Sebastiano Ardita, oggi al Csm, per anni coordinatore di delicate indagini antimafia fra Catania e Messina, disegna con voce calma e chiara lo scenario post-Cartabia. «Si consolida un assetto di potere che vede aumentare la soggezione dei magistrati rispetto alle loro gerarchie ed anche rispetto alla politica».
È un gioco delle parti, spiega Ardita, una messa in scena dove la politica e «il Sistema» interpretano i propri ruoli: «La politica finge di attaccare il sistema delle correnti e brandisce lo scandalo Palamara come argomento per colpire tutti i magistrati, ma non certo per colpire le élite, uniche responsabili degli scandali e del malgoverno interno. In realtà il potere non ha nessun interesse a che le correnti scompaiano, perché il sistema delle correnti garantisce un modello verticistico di governo della magistratura, che rappresenta un vertice con cui si può “dialogare” e che indirettamente limita l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».
Una riforma ambigua e bifronte: «Si rafforza il sistema di potere per continuare a dialogare con i vertici della magistratura da una posizione di forza. Il sorteggio e la rinuncia alla gerarchia interna rappresenterebbero invece un modello orizzontale - che poi era quello voluto dalla Costituzione - nel quale l’indipendenza e l’autonomia del singolo magistrato sarebbe massima, specialmente se garantita da un organo di autogoverno formato senza la mediazione dei gruppi di potere interno. Ma questa rimane una utopia, perché la politica e tutti i poteri forti hanno paura di una magistratura orizzontale, realmente autonoma ed incontrollabile».
Con un certo scetticismo sembra ribattere Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane. Ironizza: «Ma certo, tutte le riforme che riguardano la magistratura e che non siano scritte dalla magistratura medesima sono rappresentate come limitative. Ma di cosa parliamo? Anzi per la prima volta la politica alza la testa e riacquisisce una sua indipendenza». Il presidente di Ucpi, anche se non celebra la “rivoluzione” Cartabia, si aggrappa a quelli che definisce piccoli passi ma importanti: «Pensiamo alle valutazioni di professionalità. Il fascicolo delle performance dei magistrati si muove sulla strada giusta. Certo, si può fare meglio. Anche sul tema dei fuori ruolo, c’è un primo riconoscimento: la norma prevede che si debba stare in buona sostanza fermi un anno, dopo un periodo di fuori ruolo, e non si possano acquisire incarichi direttivi per i due anni successivi. Naturalmente noi avremmo immaginato soluzioni più drastiche, abbiamo idee più radicali di riforma sugli assetti ordinamentali». Si può fare di meglio ma è già qualcosa, è la linea. Che però non incrocia il tema che da anni porta al centro del dibattito politico italiano il Csm, accusato di essere eccessivamente influenzato dalle cosiddette “correnti”, ossia le aggregazioni tra i vari magistrati con una linea politica comune: «Non mi pare che la riforma potrà produrre alcunché da questo punto di vista. Vale per tutte le riforme dei sistemi elettorali, si continua a inseguire l’illusione che il sistema elettorale possa risolvere problemi che sono strutturali e culturali. Bisogna comunque riconoscere che la riforma Cartabia è stata varata da una maggioranza che reca dentro di sé sui temi della giustizia penale le più profonde diversità, quindi diciamo che è stato ottenuto il massimo risultato possibile in queste condizioni», dice Caiazza.
Nel linguaggio obliquo e prudentissimo del mondo della giustizia, il gioco di sponda fra avvocati e togati è per una volta chiaro: questa riforma non convince. A farla a pezzi, parlando di riforma «inquietante» ci pensa il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia: «Ci sono alcuni aspetti rilevanti che sono deludenti. Siamo consapevoli che una riforma non può, da sola, arginare il correntismo, ma può creare un percorso interno anche alla magistratura per superare quei guasti. In questo senso non è adeguata: invece di stemperare il carrierismo tende ad accentuarlo, la carriera doveva essere in qualche modo ai margini e invece diventa centrale nella vita professionale dei magistrati. E ancora le pagelle che incentivano la spinta alla competizione e quindi al carrierismo. La legge elettorale modifica poco, il correntismo è stato figlio anche delle speranze di carriera. Non c’è dubbio che questa riforma limiti l’autonomia della magistratura. Ci sono segnali non tranquillizzanti: per esempio il potere del ministro di esprimere pareri consultivi sull’organizzazione degli uffici di procura. In un momento in cui la legge introduce criteri di priorità, anche dettati dal legislatore, inquieta questo segnale che dà la legge di riservare al ministro un potere di consultazione nella procedura di approvazione dei programmi organizzativi. Un passo forse non felicissimo che rischia di portare gli uffici di procura sotto l’area di vigilanza del potere politico». Ma allora come si fa? «Questa è anche una legge di delega, bisognerà scrivere i decreti delegati. Chiederemo in quella sede al governo quell’attenzione che non ci ha riservato e che non ha riservato a questi profili critici nella fase della delega. Questo è quello che possiamo fare per ora. Poi si vedrà. Insistiamo nella speranza che ci ascolti».
Speranza, dunque, che qualcosa cambi. E lo spiraglio c’è: «Miglioramenti o correzioni in un secondo tempo sono sempre possibili», spiega David Ermini, vice-presidente del Csm che della riforma contestatissima dice: «Completa un percorso di cambiamento e rafforza il Consiglio superiore in quanto istituzione. Se ora c’è la possibilità di rinnovare il Consiglio con regole nuove, se ora ci sono le premesse per un deciso mutamento è anche perché in questi anni, grazie alla saggezza del presidente Mattarella, abbiamo garantito la tenuta e il funzionamento del Consiglio resistendo a pressioni forti e continue per un suo scioglimento anticipato». Ermini nega intenti punitivi nei confronti della magistratura: «Anche se capisco che alcune disposizioni, come ad esempio l’accentuazione della gerarchizzazione delle procure, il fascicolo di performance del magistrato o alcuni interventi in materia disciplinare, qualche perplessità la possano generare. Ma oltre la riforma dell’ordinamento giudiziario, credo che l’attenzione debba concentrarsi sulla riforma del processo penale e, in particolare, sull’istituto dell’improcedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di riportare la durata dei processi su standard europei, ma ciò richiede, specie per le corti d’Appello, un aumento significativo dei magistrati. In pianta organica mancano 1.300 magistrati, sono posti che andrebbero coperti con urgenza; occorre adottare tutte le misure organizzative necessarie per fare in modo che gli assai ambiziosi obiettivi del Pnrr possano essere realisticamente raggiunti».
Il ritornello del vice-presidente, «ce lo chiede l’Europa», non convince Nino Di Matteo, ex pm del processo Trattativa Stato-Mafia e ora consigliere del Csm: «Questa litania del Pnrr e dell’Europa è un alibi. L’Europa non ci chiede che la politica controlli il pubblico ministero, non ci chiede pubblici ministeri con carriere diverse dai giudici, non ci chiede pubblici ministeri che debbano essere valutati anche dagli avvocati. Ci chiede di andare nella direzione di una più tempestiva definizione dei processi. Su questo non si fa nulla. Con questa riforma gli organici dei magistrati e del personale amministrativo rimangono sguarniti, si creano condizioni perché i processi col meccanismo delle improcedibilità vadano improvvisamente in fumo vanificando gli sforzi anche di anni di investigatori, magistrati, avvocati e il diritto di tutti i cittadini a una verità processuale».
Il magistrato di Palermo senza mezzi termini definisce la riforma Cartabia «una rivalsa nei confronti della magistratura di una certa politica. Si vogliono regolare i conti con quella parte della magistratura che in passato ha saputo alzare il tiro e occuparsi di indagini e processi nei confronti della criminalità dei potenti». Dannosa, ripete più volte Di Matteo: «Dannosa per tanti altri aspetti che riguardano l’ordinamento giudiziario: renderanno sia i giudici che i pm meno liberi, meno indipendenti, più burocrati e più attenti alle statistiche, a non dispiacere nessuno per fare carriera: i propri dirigenti, gli avvocati. Questa riforma prevede anche che i progetti organizzativi delle procure della Repubblica, cioè il programma di lavoro di ogni procura della Repubblica su base triennale, debbano essere trasmessi non solo al Csm ma anche al ministro, che potrà fare delle osservazioni in merito. Un chiaro sintomo della volontà della politica di controllare l’attività delle procure».