Nato nel 1994 come reazione alla prima ondata xenofoba era uno strumento di denuncia contro la sanità del profitto. Negli anni è diventato un modello di assistenza che ha fatto scuola nel Paese

L’Ambulatorio medico popolare, il presidio per la salute che si oppose alla Milano leghista

«Questo appello è indirizzato agli operatori e alle operatrici della sanità perché contribuiscano in maniera attiva al progetto di ambulatorio medico popolare. Si propone di realizzare uno spazio per visite mediche nei locali occupati di via dei Transiti 28, dove è possibile prevedere un ambulatorio con bagno e sala d’attesa. Si basa su forme di autofinanziamento e sottoscrizioni, non dipende da partiti, associazioni religiose, organismi governativi. Per adesioni tel. 261111584, anche segreteria».

 

Da quel primo volantino, datato maggio 1994, e dall’apertura a Milano all’Ambulatorio medico popolare - fondato su ispirazione della consulta per i diritti negati -, si sono dipanati quasi trent’anni di visite e di cure, di problemi e di ricerca di soluzioni, di vicissitudini individuali e collettive, di relazioni umane. Una storia di coriacee e stratificatissime esperienze di autogestione, interamente rivolte a fronteggiare una realtà sanitaria nel tempo sempre meno adeguata e accessibile a tutti. 

 

«Se ripenso al ’94 risento la preoccupazione: per la prima volta era diventato sindaco di una grande città del nord un esponente della Lega Lombarda, espressione di una destra che faceva una certa paura. Davanti a questo scenario, collettivi, centri sociali e sindacati hanno cominciato a elaborare una reazione della società civile. Allora, alle prime riunioni, immaginando in gruppo il progetto dell’ambulatorio, abbiamo pensato di curare gratuitamente le persone che avevano difficoltà ad accedere al Sistema sanitario nazionale. Un sistema (frutto della riforma del ’78, espressione dell’articolo 32 della Costituzione, ndr), che non è mai stata applicata completamente. In questo senso, la nostra intenzione era quella di aprire per chiudere, ossia non volevano sostituirci al sistema statale, ma ci prefiggevamo di andare a tappare alcune falle per renderle più evidenti, per denunciarle», ricorda Andrea Crosignani, medico che fin dagli inizi ha fatto parte di questo percorso.

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Invece sappiamo che l’Ambulatorio, nonostante alcuni momenti di crisi, attraversati dal timore di dover interrompere questa esperienza così significativa (è accaduto nell’ottobre del ’97), non ha mai chiuso. Non solo. Cosa fondamentale per la continuità del progetto, i locali sono rimasti gli stessi.

 

Punto di riferimento stradale: Metro Pasteur. Due stanze abbastanza ampie sulla strada, l’ingresso in rosso, il primo ambiente destinato all’accoglienza e all’attesa dei pazienti, a un punto informazioni sul diritto alla salute e sui diritti dei migranti, nonché alle riunioni dell’associazione; il secondo spazio - dove si conservano le cartelle cliniche e i medicinali – riservato alle visite, gestite dal medico di turno. Gli arredi essenziali, provenienti da ricambi di altre strutture sanitarie, le pareti verniciate in lilla e qua e là qualche adesivo che ricorda il collettivo femminista che occupava i locali di via dei Transiti prima della nascita dell’Ambulatorio.

 

Sono stanze a cui - tra il 2020 e il 2021 - si è rivolto lo sguardo di Chiara Campara e Vittoria Soddu, autrici di “Amp, note per una pratica di autogestione”, documentario che a metà maggio è stato presentato al Working title film Festival di Vicenza, rassegna su cinema e lavoro, diretta da Marina Resta e giunta alla sua sesta edizione.

 

La caffettiera grande sul fuoco del fornelletto elettrico, gli occhi di medici e pazienti che affiorano dai volti coperti dalle mascherine, il dettaglio di una mano con al dito il saturimetro, un lettino sanificato con lo spray, e il suono inconfondibile della fotocopiatrice: le due registe (classe ’87 e ’86), sono andate in cerca del qui e ora, del cuore vibrante della vita quotidiana dell’Ambulatorio, attratte però irresistibilmente dalla sua storia e dalla sua ragion d’essere intimamente politica, come testimoniato da un vero e proprio tesoro sul retro. Si tratta di un archivio sorprendente per la sua corposità e per la sua volontà pervicace di documentare, di fare memoria. «Come diciamo nell’incipit del film, negli anni ’90 si registrava e si sbobinava tantissimo, qualcosa che noi anagraficamente non abbiamo conosciuto e che ci ha affascinato. Insieme agli infiniti ritagli di giornali di questo archivio non troppo ordinato», racconta Chiara Campara.

 

Dall’archivio sono state poi rielaborate le riflessioni che costituiscono il corpo testuale in sovrimpressione in giallo del documentario. E dalla stessa fonte proviene, ovviamente, il prezioso volantino delle origini.

Riannodando quindi i fili di questa storia, congiuntamente a quella del Paese e della sanità lombarda, Crosignani si sofferma sulla riforma del ’97, gli inizi dell’era Formigoni: «È stata la prima volta che abbiamo criticato pubblicamente le politiche sanitarie regionali. E quello che è successo con la pandemia e che sta ancora succedendo ci ha confermato quanto allora avevamo temuto. La salute non può essere gestita pensando all’efficienza economica, come fosse un’attività produttiva: va pianificata secondo i bisogni di tutti i soggetti coinvolti, bisogni che devono essere accuratamente studiati. Adesso ci ritroviamo con una medicina territoriale inesistente, con gravi difficoltà di accesso a quella specialistica ospedaliera, che significa liste d’attesa inenarrabili e ticket elevati, con una serie di patologie delle persone più anziane, considerate meno redditizie da un punto di vista della cura e per questo abbandonate a se stesse. La libera concorrenza tra pubblico e privato ha solo determinato il fatto che alcune procedure essenziali non venissero svolte».

 

Per questo, l’associazione di via dei Transiti, che in origine garantiva un’apertura cinque giorni a settimana e che oggi, con un gruppo di otto medici e venti operatori in totale, ne copre due, ha voluto fermamente che l’ambulatorio restasse aperto durante la pandemia, affiancando all’attività legata alla medicina di base anche quella di distribuzione di beni alimentari e di supporto.

 

Pensato come un luogo per tutti, questo spazio storico ha visto fin da subito presentarsi in netta maggioranza persone che avevano difficoltà ad accedere alle cure per mancanza di permesso di soggiorno. Un aspetto che anche il documentario sceglie di sottolineare, addentrandosi in voice over in due potenti storie di immigrazione, violazione dei diritti e sicurezza sul lavoro.

 

Crosignani racconta poi come nel tempo, anche sulla base delle riflessioni sviluppate dall’Ambulatorio e da altri collettivi, la legislazione sia mutata fino a prevedere l’accesso alle cure essenziali per tutte le persone immigrate e ricorda come l’associazione sia riuscita, col supporto del Difensore civico, a vincere una causa contro la Asl, che rifiutava di dare i presìdi per la misurazione della glicemia a due pazienti aventi codice Stp (Straniero temporaneamente presente). «Un esempio di quello che significa fare un lavoro non solo assistenziale ma rivendicativo».

 

Perché, se in Italia sono diverse le esperienze nell’ambito della medicina popolare - da Firenze a Reggio Calabria, da Napoli a Bologna a Barletta, insieme al grande patrimonio della medicina territoriale o di comunità messo in atto dal 2005 dal progetto Microaree a Trieste,  la cifra che contraddistingue l’Ambulatorio medico popolare di via dei Transiti a Milano è la grandissima conoscenza delle pratiche dell’autogestione e l’aver sperimentato che è possibile rispondere in modo incisivo alla stretta fagocitante della società capitalistica.

 

Per questo motivo, sempre imprescindibile è stata la riunione del lunedì. Lì, per esempio, si discute del questionario anonimo proposto agli utenti al fine di comprendere il contesto da cui provengono, di come l’essere considerati un numero o semplicemente un corpo influisca negativamente sui processi di guarigione, o su cosa fa sì che ci percepiamo come «malati» o meno.

Sono semi inestimabili da cui ripartire per affermare un nuovo soggetto collettivo che sappia ristabilire le priorità della salute e della pace, rigenerando la situazione attuale, negli scritti dell’associazione definita «acefala» e disunita, ovvero sopravvissuta a trent’anni di erosione dei diritti.

 

«Non si ragiona solo per slogan», continua Crosignani: «Si parte dalla critica profonda dell’esistente, dalla verifica di una serie di carenze e, con energia positiva, si cercano soluzioni, prima in riferimento al piccolo, e poi estendendo al grande. In questi anni abbiamo aperto circa cinquemila cartelle cliniche. A differenza che in ospedale, l’accesso all’ambulatorio è diretto, senza nessuna fila per pagare il ticket. Da noi ci sono due figure: quella del medico e quella di chi accoglie. Chi viene, ci racconta esperienze di malasanità, del proprio disagio rispetto alla salute ma anche di quello abitativo e delle difficoltà dovute alla povertà. Ci sono persone che sono arrivate all’ambulatorio come “clandestini” e che, una volta avvenuta la sanatoria, hanno chiesto di continuare a essere visitate da noi, perché qui si sentono a casa».

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