In tempo di guerre e pandemie mondiali, sembra difficile discutere pacatamente di giustizia, specie dopo il fallimento del provocatorio referendum del 12 giugno. È anche vero, però, che proprio questo periodo di silenzio potrebbe favorire se non la pace, almeno la sospensione della “guerra dei trent’anni” tra avvocati (specie penalisti) e magistrati (specie pubblici ministeri). Naturalmente non è giusto generalizzare, perché si tratta di una “guerra” che non coinvolge affatto la maggior parte degli appartenenti ai due ruoli, ma ciononostante si manifestano troppo spesso ingiustificate diffidenze reciproche. Anche per questo un tentativo va fatto.
La mia personale speranza è cresciuta dopo avere letto un recente libro, colto, originale ed utile, “L’avvocato nel futuro”, degli avvocati torinesi Fulvio Gianaria e Alberto Mittone. Ma qui non intendo recensirlo, né proporre riforme costituzionali o modifiche ai codici vigenti. Vorrei piuttosto trarne spunto per promuovere una riflessione comune di magistrati ed avvocati che, proiettata sul futuro, riguardo gli importanti temi trattati nel libro e che, scevra da sbarramenti e pregiudizi, possa dar vita a prassi condivise. Una strada forse in salita da percorrere insieme, riconoscendo che la giustizia non è l’avventura di un giorno!
Vorrei provare ad elencare, allora, solo alcuni degli argomenti che potrebbero essere oggetto di una futura “Carta Comune della Giustizia”, in particolare quelli che la modernità dilagante ormai impone di considerare.
Sia pure senza classifica di importanza, parto dalla ormai inaccettabile teatralità delle rappresentazioni processuali, fenomeno che viviamo ogni sera, grazie anche a magistrati ed ex magistrati, avvocati, esperti di accertamenti scientifici e sedicenti intellettuali. Sulla scena, cioè, vediamo tutti coloro che ormai provano a sfruttare talk show, conferenze stampa ed interviste a raffica solo per accrescere la propria visibilità.
Dibattimenti e sentenze diventano secondari, mentre con toni assertivi e senza cedimenti al dubbio ed alla presunzione di innocenza, si evoca – non sempre indirettamente, la propria bravura a fini di autopromozione, nonostante codici etici dell’avvocatura e della magistratura lo vietino. Si può continuare ad essere silenti di fronte a queste prassi che nulla hanno a che fare con il diritto-dovere di informare?
L’irrompere nella società di nuove scienze e tecniche di analisi (tra cui neuroscienze, matematica finanziaria ed altro), ha poi determinato rispetto al passato il crescere del peso nei processi della prova scientifica che diventa più importante di ogni altra, mentre consulenti ed esperti di parte diventano la bocca della verità. Nessuno può più ignorare questi scenari che influenzano anche la giurisprudenza della Cassazione e tutti devono imparare ad interloquire con questi nuovi saperi, tanto più se si esercitano mestieri che richiedono sempre più competenze e specializzazione, anche per effetto del cosiddetto panpenalismo, ovunque in costante crescita.
Ma non mi pare accettabile che l’esito dei processi dipenda spesso dal dictum di periti e consulenti di parte, talvolta dagli opposti contenuti e che le aule di giustizia vengano dominate dalla tecnica, anziché dal diritto.
E veniamo così all’impatto dell’intelligenza artificiale e delle moderne tecnologie nel mondo della giustizia e della sicurezza, un impatto tale da incidere sulla diffusione di controlli anche preventivi del territorio e delle persone, quasi vivessimo sorvegliati dal Dipartimento Precrimine nell’ America del 2054, descritta nel film Minority Report di Steven Spielberg.
Nonostante sull’utilizzo della intelligenza artificiale siano intervenute risoluzioni del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, avanza un futuro preoccupante, quello caratterizzato dagli algoritmi che decidono: algoritmi e intelligenza artificiale (sui cui software incombe peraltro una inaccettabile segretezza industriale) possono certamente aiutare la raccolta oggettiva e storica dei dati, della giurisprudenza, degli atti per decidere, ma non possono servire per la previsione delle decisioni giudiziarie, neppure quanto all’entità delle pene.
Bisogna opporsi con forza, dunque, alla giustizia predittiva, che pure viene usata in altri Paesi per stabilire se un sospettato sia un terrorista da incriminare, se sia pericoloso etc.. Nel libro di Gianaria e Mittone, si cita una decisione della Corte Suprema del Wisconsin fondata sul responso di un algoritmo per affermare il rischio di reiterazione di reati dello stesso tipo di quello per cui si procedeva contro un ladro.
Ovviamente altra cosa sono i metodi moderni di indagine come l’uso dei trojan, o la raccolta dei dati sui contatti tra telefoni, sui loro spostamenti, che servono e che in Italia, contrariamente a quanto altrove previsto, devono essere autorizzati con provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ripeto: è la decisione che deve essere salvaguardata.
Andando avanti, si sente spesso parlare dei sistemi informatici che sarebbero stati installati in tutti gli uffici giudiziari italiani per velocizzare la giustizia penale e civile e facilitare il mestiere dell’avvocato e del magistrato. Si tratta, però, di un’affermazione vera solo in parte, non solo per la mancanza persistente di strutture e di personale competente, ma anche perché i relativi software e programmi - elaborati da tecnici che spesso non conoscono la giustizia nelle sue articolazioni concrete e necessità quotidiane - si rivelano inadeguati, fino a determinare anche delocalizzazione dei servizi legali pubblici e nuove strutture degli studi degli avvocati.
Tecnica e modernità finiscono così con il condizionare l’iter della giustizia, mentre dovrebbero essere solo strumenti per rendere più efficace e rapido ogni passaggio dei processi.
Certamente è giusto affermare che occorre una corretta mediazione, senza pregiudizi, tra ciò che abbiamo alle spalle e la tecnologia informatica che avanza. Ma deve essere chiaro, come scrivono Gianaria e Mittone, che la tecnica deve rispettare il modello costituzionale e l’impianto normativo che si intende costruire e non viceversa. Ciò, aggiungo, anche rispetto allo svolgimento dei dibattimenti ordinari in cui – salvo il periodo di emergenza ancora in corso – non si potrà accettare l’assenza non volontaria dei protagonisti e la rinuncia alle prove orali in presenza.
Penso che quelle sin qui sommariamente elencate e molte altre connesse, siano le problematiche pratiche che dovrebbero seriamente essere affrontate da avvocati e magistrati, abbandonando da un lato (quello degli avvocati) la inutile ed antistorica guerra sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, bocciata anche dal Parlamento Europeo, e dall’altro (quello dei magistrati) ingiustificate diffidenze nei confronti della classe forense.
Ve lo immaginate un documento redatto dopo l’inizio di un simile leale confronto, una sorta di codice deontologico comune, che, recante in intestazione sigle e simboli dei rispettivi organi istituzionali e rappresentanze associative, indichi ad avvocati e magistrati le virtuose e condivise prassi cui conformarsi nel pur diverso loro lavoro quotidiano, proponendo altresì confronti stabili – e non solo in momenti emergenziali – con il ceto politico? È davvero un sogno ingenuo?
Il futuro dei giovani avvocati e magistrati non sarà cupo se si riuscirà ad usare correttamente la modernità senza lasciarsene travolgere. E forse i cittadini, gradualmente, potrebbero tornare ad avere fiducia nella giustizia.