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La lotta dei nativi americani per salvare le Black Hills dalla caccia al litio

Dopo aver subito l’esproprio delle terre ai tempi della corsa all’oro, le tribù sono ora impegnate in difesa delle colline sacre del Dakota contro lo sfruttamento dei giacimenti minerari. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità»

Quella che da quasi centocinquant’anni ribolle nelle arterie scure di questi boschi è la più lunga e caparbia battaglia del popolo nativo contro il governo americano, la lotta di resistenza per il riscatto delle Black Hills, le colline nere, rubate dai coloni.

 

Questi clivi ricoperti di conifere e irrorati da bacini di acque dolci, non sono un appezzamento di terreno come tanti nel Dakota del Sud; sono le He Sapa, le terre sacre degli Oceti Sakowin, (che i rivali bollarono Sioux, i piccoli serpenti), la confederazione di tribù alleate Lakota, Dakota e Nakota. Qui, nacque il leggendario guerriero Cavallo Pazzo; qui cavalcarono Toro Seduto e Nuvola Rossa. La terra che ha alimentato la fierezza di un popolo che non si è piegato neppure all’offerta di centocinque milioni di dollari, il prezzo che la Corte Suprema nel 1980 aveva stabilito per compensare l’espropriazione illegittima, consumata nella seconda metà dell’Ottocento, quando i bianchi si lanciarono nella corsa all’oro. Un fondo mai riscosso, oggi lievitato oltre il miliardo.

 

Dopo decenni di lotte, i nativi, recintati nella riserva di Pine Ridge, avevano posto grandi speranze nell’“amico” Biden; ma il recente attacco russo all’Ucraina gli ha sbattuto davanti il timore di una seconda calata. «Dobbiamo adottare tutti gli strumenti e le tecnologie che possono liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (...) Dobbiamo porre fine alla dipendenza dalla Cina e da altri Paesi», ha detto il presidente lo scorso marzo, invocando il Defense production act, una legge risalente alla Guerra Fredda, per incoraggiare le estrazioni di litio e altri materiali per motivi di sicurezza nazionale. Aumentare le miniere, dunque.

«Le macchine elettriche hanno bisogno di litio, le bombe di uranio», spiega Carla Rae Marshall, attivista della Black Hills clean water alliance, la principale associazione che monitora le attività minerarie sulle colline sacre del Dakota del Sud. La incontriamo nel suo ufficio a Rapid City. «Questa energia sarà verde per gli altri, ma per noi avrà un prezzo devastante perché le Black Hills, con tutte le riserve minerali, sono sotto tiro ancora una volta. Siamo pronti a combattere di nuovo».

 

Di nuovo, appunto. Perché i Lakota Sioux lottano per la sopravvivenza da quando i bianchi “scoprirono” l’America e iniziarono ad accaparrarsi ogni centimetro. Fino a quel momento erano gli unici abitanti delle Grandi pianure del West, poi romanzate in decine di film hollywoodiani. Vivevano grazie alla caccia al bisonte, nucleo essenziale del loro sostentamento. Dal maestoso «buffalo» si ricavava cibo, pelli per le tende, grasso da conservare, ossa per costruire utensili.

 

«Noi Lakota diciamo che le Black Hills sono il cuore di tutto ciò che esiste», racconta Monique Mousseau, l’attivista locale con cui viaggiamo. Lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri, questa catena montuosa deve il nome alla fitta vegetazione che la fa apparire tenebrosa da lontano, ma bellissima e ricca di sfumature quando la si attraversa. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità, la connessione con la Madre Terra. Un Lakota cercherà sempre di tornare qui, dove può sentirle e vederle», dice Mousseau, mentre le indica, dopo essere scese dall’auto, appena entrate nella riserva di Pine Ridge, una delle aree più economicamente depresse degli Stati Uniti in cui vivono quarantaseimila Lakota della banda Oglala. «I colonizzatori ce le lasciarono pensando che non servissero a nulla, salvo cambiare idea quando scoprirono che erano ricche d’oro».

 

Avevano provato a fidarsi, i nativi, quando nel 1851 prima e poi nel 1868, al forte di Laramie, il governo americano siglò con loro un trattato promettendo che nessuno avrebbe toccato le Black Hills. Le buone intenzioni dei visi pallidi durarono poco, giusto il tempo di scoprire l’oro custodito nel ventre della terra, dopo una esplorazione del generale George Armstrong Custer nel 1874. Le colline nere furono invase da minatori e coloni, in barba a tutti i trattati, tanto che il governo li annullò nel 1877. Fu allora che iniziò la lotta instancabile dei Lakota per riavere indietro il territorio «rubato».

 

Lo sfruttamento però è continuato negli anni Cinquanta, stavolta per estrarre uranio. Negli anni Settanta, l’opposizione locale, ma soprattutto il crollo dei prezzi, fecero fermare le pompe. Oggi l’unica attiva è la miniera d’oro Wharf. «Sono andati via lasciando centinaia di siti minerari abbandonati, alcuni a cielo aperto, senza bonificare le acque contaminate con materiale radioattivo o i terreni», denuncia Marshall.

 

A metà degli anni Duemila, l’aumento dei prezzi dell’uranio ha riacceso le torce degli «esploratori». La Black Hills clean water alliance fiata sul collo di tutte le compagnie che hanno richiesto i permessi pubblici necessari. Ce ne sono diverse in corsa per estrarre uranio, litio, oro e terre rare. Clean water alliance punta il dito in particolare contro i progetti di estrazione della multinazionale canadese-cinese Azarga/Powertech Uranium. «Utilizzerebbero enormi quantità di acqua, oltre trentamila litri al minuto, completamente gratis». In ballo ci sono miliardi di dollari. «Cinquant’anni fa nessuno fu ritenuto responsabile del danno ecologico. Non permetteremo che accada ancora», promette l’ambientalista.

Una lotta tra Davide e Golia, perché le compagnie già da anni scaldano i motori. Non vede l’ora la canadese United Lithium, impegnata in un progetto di scavo che, se approvato, occuperà una quarantina di chilometri quadrati nelle Black Hills. «Le miniere degli anni ’70 non impiegavano i nostri metodi moderni. Siamo entusiasti, ci aspettiamo scoperte capaci di sostenere la domanda crescente di litio per rifornire i mercati nordamericani», ha dichiarato Michael Dehn, il presidente.

 

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le colline nere furono una fonte importantissima di «oro bianco». Oggi, nonostante le sostanziose riserve negli Stati Uniti, esiste solo una miniera attiva e si trova in Nevada, anche in questo caso su terra sacra.

 

L’America, che ha ceduto il passo a Cina, Australia, Argentina, sente di non poter più rimandare la corsa. Il litio è necessario per la produzione di telefoni, computer, prodotti farmaceutici. E per i veicoli elettrici, ovviamente, che nel 2030 si stima utilizzeranno il 90 per cento del litio a disposizione.

 

Certo, resta difficile un’opposizione tout court. «Ci sono pro e contro», riflette il professor Jim Stone, direttore del dipartimento di ingegneria ambientale della School of mines and technology di Rapid City: «Se ci fosse più integrazione degli stakeholder e se i minerali venissero utilizzati per uso nazionale, questo sarebbe un luogo ideale per produrre energia sostenibile. Innanzitutto non c’è una popolazione numerosa nei dintorni, ma capisco che per i Lakota il problema non sia solo legato all’inquinamento, ma anche alla sacralità del territorio».

 

Le politiche energetiche di Biden sono un guanto di sfida imposto dai tempi. Non certamente dettato da poca considerazione delle esigenze delle popolazioni indigene. Anzi, fin dal primo giorno alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo, il presidente ha imposto il blocco dei lavori dell’oleodotto Keystone, come aveva fatto Obama, mentre Trump aveva ridato poi il via libera. A parole e nei fatti, con la nomina ad esempio agli Interni della prima ministra nativa americana Deb Haaland, Biden ha messo in chiaro che il rispetto dell’autogoverno dei popoli tribali è una priorità della sua amministrazione. Ha poi stanziato miliardi per aiutare le riserve ad affrontare la siccità, bonificare le miniere e tamponare le conseguenze della pandemia, tremende per gli indiani. Insomma, una inversione di tendenza quella del democratico rispetto al predecessore repubblicano.

 

A Trump, i Lakota non perdoneranno mai lo sgarro di aver voluto celebrare nel 2020 la festa dell’indipendenza ai piedi del monte Rushmore, l’attrazione turistica più famosa delle Black Hills, con i faccioni incisi nella roccia dei presidenti Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln (ognuno a suo modo coinvolto nell’oppressione). Il marketing americano lo promuove come il santuario della democrazia. Per gli indigeni è il simbolo dell’oppressione bianca. Due anni fa, i manifestanti indiani, arrivati per dire a Trump che non era il benvenuto, si sono sentiti urlare, ironia della sorte: «Tornatevene a casa vostra».

 

Ad organizzare le proteste c’era Nick Tilsen, anima del collettivo Ndn, arrestato durante una dimostrazione. È il volto della campagna di restituzione delle He Sapa, che ha visto un risveglio anche a seguito della stagione Black lives matter. «C’è un movimento globale per il ritorno delle terre nelle mani dei nativi. L’intero sistema economico degli Stati Uniti è stato fondato sull’olocausto delle nostre popolazioni e sul lavoro degli schiavi. Hanno cercato di finirci, ma siamo ancora qui. Lo spirito di resistenza scorre nel sangue del nostro popolo, è lo stesso di Cavallo Pazzo», dice Tilsen. Il collettivo punta alla creazione di un trust che gli permetterebbe di lavorare con il dipartimento degli Interni alla gestione del territorio, oggi per la maggior parte di proprietà federale. Ricorda Nick: «Abbiamo sempre rifiutato il denaro del governo per le colline nere è tempo che le restituiscano». La relazione viscerale con questi luoghi non si può monetizzare: «Le Black Hills non sono in vendita e non lo è neppure il popolo Lakota».

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