Il Paese cresce nelle previsioni internazionali ma il raccolto è compromesso dalle inondazioni e a milioni si riversano sulla capitale lasciando le risaie

Dietro al bancone della scarna hall dell’albergo il portiere, un ragazzo sulla ventina, è in videochiamata. Si avvicina sorridendo e mostra lo schermo dove un signore dall’altra parte del mondo dice «Forza Roma». Siamo a Sunamganj, nel nord del Bangladesh, e Ali, il giovane, spiega che suo zio vive nella capitale italiana da anni e che lui partirà per la Libia per poi raggiungerlo. «So che è pericoloso, ma mi sento che andrà tutto bene», dice sorridendo. Se tutto andrà per il meglio, Ali potrà considerarsi molto fortunato. Non tutti i bangladesi hanno la possibilità di pagarsi il viaggio fino in Libia o famiglie pronte a indebitarsi con qualcuno all’estero che possa facilitarlo. Dunque la migrazione è quasi sempre interna, almeno all’inizio. La maggior parte dei concittadini di Ali che lascia il proprio villaggio non parte in cerca di una prospettiva migliore come capita al giovane portiere di albergo ma perché non ha scelta.

Il viaggio dei migranti interni è molto meno caro e meno pericoloso, ci si sposta verso altre zone del Paese o verso la capitale Dacca, dove, tra le migliaia di passeggeri che sbarcano ogni giorno dai traghetti nell’enorme porto fluviale, molti hanno in mente di restare, cercando una qualche forma di sopravvivenza e un giaciglio. Migranti interni e chi parte per l’Europa o la Penisola araba sono un misto tra il migrante economico e il rifugiato ambientale, una categoria giuridica che non esiste, sebbene il clima che cambia produca la necessità di lasciare la propria terra in misura crescente. In Bangladesh si scappa dalla terra che scompare da sotto ai piedi perché l’intensità delle tempeste tropicali nel Golfo del Bengala è in aumento e le esondazioni dei grandi fiumi che attraversano questa immensa pianura sono divenute irregolari, frequenti e più devastanti che in passato. Lo scorso giugno, l’acqua ha invaso le case di 7 milioni di famiglie producendo 10 miliardi di dollari di danni. La siccità dell’inizio dell’anno e gli allagamenti dell’estate hanno falcidiato i raccolti di riso nell’anno in cui l’invasione russa in Ucraina ha fatto mancare cereali alla dieta planetaria.

Tra i contadini colpiti ci sono anche Rehana e Bibi, donne contadine, che incontriamo in un villaggio a un’ora di viaggio da Sunamganj. Per arrivarci si viaggia su strade lungo le quali il riso raccolto prima che l’acqua dei fiumi cominci a salire è messo a seccare sull’asfalto, l’unico luogo davvero asciutto. Il furgoncino a tre ruote su cui viaggiamo a volte è costretto a passarci sopra.

Rehana dimostra una cinquantina d’anni, vive in un villaggio circondato da risaie del demanio pubblico concesse in comodato ai contadini migranti interni. «Vengo dalla provincia di Mymensingh dove non avevamo spazi da coltivare, qui ce ne sono tanti. Sono stati i nostri genitori, miei e di mio marito a venire quando eravamo bambini». Per qualche anno è andata bene, le inondazioni erano regolari e avvenivano dopo i raccolti, ma non è più così. La capanna con il tetto di latta dove vive Rehana è posta per precauzione su un piccolo terrapieno, è rialzata rispetto al livello delle coltivazioni come tutto il resto del villaggio. Una sola stanza, un letto, delle mensole di legno, qualche cesta, dei sacchi da 25 chili di riso, bacinelle e pentole di latta. Si cucina col carbone su due piccoli fornelli di argilla.

Le storie di famiglie che hanno visto la loro casa spazzata via dall’acqua e l’hanno dovuta ricostruire indebitandosi tornano in tutti i villaggi che si incontrano nel Nord e nel Sud del Paese. In ogni casa dal tetto di latta ondulata c’è qualcuno che è partito per cercarsi qualcosa da fare. Nel minuscolo villaggio tra le risaie che costeggiano il fiume Baulai, sono rimasti quasi solo donne e bambini. «Mio marito lavora sul fiume, carica e scarica la sabbia o fa altri lavori pesanti. Quando trova lavoro come bracciante nella stagione del raccolto del riso, fa anche quello. A volte lavora come macellaio. Fare solo i contadini è quasi impossibile, quest’anno il riso non è cresciuto a causa del vento cattivo (una credenza, come se ci fossero demoni nel vento che avvelenano le piante), i baccelli erano vuoti». La verità è che per salvare il raccolto dalle inondazioni premature si sono raccolte piante acerbe con chicchi non formati. «Neppure le arachidi stanno crescendo. Nella stagione in cui dovevano crescere non c’erano nuvole e non ha piovuto. E così le piante non hanno messo radici. Sono solo piante, ma senza arachidi», aggiunge Rehana scuotendo la testa. Le due donne scendono verso il campo, sradicano alcune piante e mostrano le radici. Dove dovrebbero trovarsi i baccelli delle arachidi, ci sono solo dei piccoli ispessimenti. «Tutto da buttare», dicono.

Per un villaggio che vive di due colture, un raccolto che va a male è un disastro. «Se le arachidi crescessero e il riso non andasse a male, avremmo un raccolto e lo lavoreremmo. Non abbiamo né l’uno né l’altro e per questo dobbiamo andare altrove».

 

Il contesto è quello di una regione agricola in cui i mestieri alternativi a disposizione sono pochi. C’è chi fa il pescatore sui pescherecci dei fiumi come il figlio più grande di Rehana: «Non puoi andare con la tua barchetta perché ci vuole una licenza che in pochi riescono a ottenere. Era andato a Dacca con la moglie e i figli, ma non ha trovato niente e ho dovuto mandargli i soldi per tornare». Se si ha una rete in città, se si è intraprendenti e fortunati, la megalopoli da 20 milioni di abitanti può significare un futuro decente; se non va bene, ti aspetta una vita da mendicante o, al meglio, una passata a spingere coi pedali un risciò, dormendo all’ombra di una zanzariera sulla tua unica proprietà. Va bene se sei un maschio solo, non se hai una famiglia o se sei donna sola. Eppure Rehana e la sua amica sanno che bisognerà continuare a partire, magari come stagionali, come fanno la maggior parte dei maschi. «Torneranno a giorni a raccogliere le poche arachidi che sono maturate e il riso lavorando nei campi che coltiviamo noi o come braccianti per qualcun altro: se il raccolto è magro come adesso bastano poche braccia. Poi ripartono».

I fiumi sono sempre cresciuti nella stagione delle piogge, che dava un ordine allo svolgersi della vita agricola e contribuiva a rendere la pianura del Bangladesh fertile. Non mancavano i fenomeni estremi, ma da qualche anno a questa parte le esondazioni arrivano inattese, più violente e frequenti. Nei giorni in cui eravamo nella regione nord del Bangladesh erano previste piogge sulle montagne dell’Himalaya, oltre il confine indiano, e i contadini si affannavano a raccogliere in fretta e furia tutto quel che si poteva: uomini, donne, anziani, bambini piegati sulle piantine di riso, a trafficare sulle trebbiatrici che separano i chicchi dalla pianta o a camminare sul riso messo a essiccare per separare la pula dai chicchi.

«Prima le inondazioni arrivavano ogni due o quattro anni, adesso può succedere più di una volta l’anno. Un tempo le cose andavano. Abbiamo piantato alberi e piante, ma se arrivano le inondazioni rovinano tutto. Viviamo e vivremo per mesi circondati dal fango», racconta Rehana immaginando i mesi a venire. La sua amica aggiunge: «A volte l’acqua arriva fino alla cintola, quando ci entra in casa non possiamo nemmeno cucinare. Dobbiamo procurarci del cibo secco come il riso soffiato o biscotti. Siamo continuamente di fronte al dubbio se rimanere o lasciare i campi e andare a Dacca a cercare lavoro. Che altro dovremmo fare? Se avessimo soldi compreremmo un pezzetto di terra altrove, invece dobbiamo rimanere e cavarcela fino al prossimo raccolto. Passeremo sei mesi sott’acqua e altri sei sperando che non ci siano inondazioni».

La storia di Bibi è simile ma più sfortunata. «Ho quattro figli, tre se ne sono andati in altri villaggi non lontani e uno è rimasto, guadagna qualcosa e ci aiuta. Gli altri devono badare alle loro famiglie. Mio marito lavorava sul fiume, trasportavano la sabbia. Poi ha avuto un incidente, si è rotto una gamba e si è dovuto fermare», racconta Bibi guardando le nuvole che si addensano in lontananza sulle montagne. «Per sei mesi non poteva fare nulla senza il mio aiuto, poi ci è stato offerto un lavoro nella fornace di mattoni: il padrone mi disse: tu e tuo marito potrete lavorare facendo quel che riuscite a fare e i tuoi figli faranno i facchini. Così siamo andati. I miei figli, di 16 e 21 anni, trasportano mattoni dalla zona in cui li modellano fino al forno. Anche quello di 12 ha dovuto lasciare la scuola perché non ce la potevamo permettere. I miei figli sono là adesso, io sono qui qualche giorno».

 

Forse la preoccupazione principale di queste donne è l’istruzione dei figli. L’istruzione è considerata, a ragione, una chiave di volta per il futuro in un Paese che, per quanto povero, cresce a ritmi sostenuti ed è prossimo a uscire dalla categoria del sottosviluppo. Goldman Sachs ha incluso il Bangladesh nella categoria dei “Next 11”, i prossimi undici Paesi destinati a seguire il percorso dei Brics, gli Stati destinati a diventare colossi dell’economia come Brasile e Indonesia. Con tutte le speranze e le contraddizioni del caso.

«Ero riuscita a far entrare i miei figli nella scuola pubblica, poi mio marito ha avuto l’incidente e ha dovuto lasciare», racconta Bibi: «Non poter mandare i miei figli a scuola mi fa soffrire, anche adesso mentre sto parlando stanno lavorando. Per loro non ci sarebbe altro lavoro in questa zona, non hanno mai potuto imparare altri mestieri».

Interviene Rehana: «Non riusciamo a far diventare i nostri figli adulti, facendoli studiare. Servono soldi. Uno dei miei figli ha finito le medie, gli altri nemmeno quelle, tutti a lavorare via da qui. Se avessimo l’opportunità di lavorare qui i nostri figli e i nostri mariti non dovrebbero lasciare il villaggio. Farei qualsiasi cosa pur di poter rimanere qui tutti assieme».