Il centro clinico di Bivona, in provincia di Agrigento, negli anni Sessanta avrebbe dovuto accogliere piccoli affetti da tracoma. In realtà era un lager, tra pedofilia e botte. Che le vittime ancora ricordano e raccontano

Come dei cani, rinchiusi dentro un magazzino, quando le telecamere della Rai il 24 maggio del 1961 entrarono dentro quella struttura d’eccellenza che era il tracomatosario di Bivona, nei pressi di Agrigento. Nato per curare il tracoma, una malattia infettiva degli occhi che può portare alla cecità poi debellata, la struttura gestita dai cavalieri dell’ordine di Malta, era una eccellenza italiana che faceva parlare di sé in tutta la penisola, tanto che quel giorno le telecamere di “Sorella radio” andarono in Sicilia, in provincia di Agrigento, per raccontare quel «magnifico» posto. Nessuno dei bambini aveva però il tracoma, almeno in quegli anni quando già la malattia era sta debellata. Ma le “signorine”, come venivano chiamate le operatrici del luogo, passavano comunque, ogni giorno, la pomata oftalmica sugli occhi.

 

«Ci passavano la pomata ogni giorno ma noi non avevamo nulla, era la scusa per tenerci chiusi dentro».

 

Luca, nome di fantasia, in quella struttura c’è stato fino al 1965 quando quell’imponente complesso chiuse i battenti, adesso ha superato i 65 anni e vive in un piccolo paese delle Marche con la figlia. Quei giorni li ricorda con rabbia e ripercorrendo quei piccoli passi indietro riavvolge il nastro della sua travagliata vita. Lui faceva parte di quei sedici “cani” che non venivano mostrati alle telecamere: «Mentre gli altri avevano dei genitori che una o due volte al mese venivano a prenderli per portarli a casa e che li avevano lasciati lì per mancanza di soldi, noi eravamo pure abbandonati da Dio: i nostri genitori ci hanno abbandonati lì senza mai venirci a trovare, io sono stato l’errore di una notte di sesso e con mio fratello ci siamo ritrovati dentro questa struttura dove ci trattavano male, ma le barbarie non sono le bastonate o le notti dentro la “carbonaia”, neanche le notti al gelo con i piedi nella neve solo per educarci. C’era di peggio».

Alfredo D'Amato / Panospictures

E quel peggio va oltre i controversi metodi educativi utilizzati dalle “signorine”: era l’incubo di ogni weekend, quando ai 16 “cani” veniva offerta l’occasione di essere “liberi”, di uscire da quel muro infinito dove oggi viene raffigurata una bambina che squarcia il velo di quell’oscuro mondo e riesce a scappare.

 

Loro non sono riusciti a scappare, anche se ci hanno provato più di una volta, finendo sempre per essere ripresi poi dai carabinieri e bastonati da chi pretendeva di educarli col sangue. Scappavano da quei fine settimana, che avrebbero dovuto essere la bella occasione per uscire da quell’inferno fatto di pianti e punizioni: cosa li aspettava fuori era però l’abisso del male.

 

I 16 bambini che erano stati abbandonati per sempre dai genitori venivano ceduti, probabilmente in cambio di un compenso al direttore, a persone facoltose per una giornata di vacanza al cinema, a mangiare un gelato o semplicemente a passeggiare: con la scusa di portare uno di quei bambini, tutti dai 9 ai 14 anni, in giro, questi venivano portati in un tugurio fatto di violenze e abusi: «All’inizio, noi che non ricevevamo neanche una visita eravamo contenti - racconta con tante difficoltà Luca - non pensavamo questo: venivamo portati in case di campagna da persone che arrivavano con auto di grande valore, io mi ricordo uno che è venuto a prendermi con una Giulietta, poi ci portavano anche a mangiare un gelato ma prima dovevamo soddisfare i loro bisogni».

Alfredo D'Amato / Panospictures

Non riesce a entrare nei particolari Luca, nel suo racconto fatto di pianti e sospiri: «Parlando mi sto sfogando, ma è come riaprire di nuovo una vecchia ferita, ci abusavano, ci portavano con sé, ci spogliavano e il resto te lo faccio immaginare». Maschi e femmine, senza distinzione venivano “venduti” a persone che arrivavano da fuori: «Questa era la sorte che toccava a noi che non avevamo più genitori, o meglio noi che eravamo stati prelevati da casa con un furgone e siamo stati portati in quel lager». Chi non andava veniva riempito di botte, notti di bastonate in cui i pianti si alternavano all’insonnia: «Io ci sono andato 4-5 volte - racconta ancora mestamente Luca - poi ho preferito le bastonate all’altra tortura. Ci sono persone che sono riuscite ad andare soltanto una volta e poi prendevano tantissime percosse perché si rifiutavano. Il direttore (lo chiamavamo “sci-sci” per la sua cadenza bolognese) voleva che noi andassimo con questi sconosciuti e sicuramente dietro c’era un giro di soldi, altrimenti non avrebbe avuto senso».

 

Come nel più angosciante dei film la storia di questi bambini era peggio di una prigione. Dietro un muro invalicabile, per almeno 5-6 anni, a subire violenze in un periodo in cui gli orfanotrofi proliferavano in tutta la Sicilia, più come business per il problema del momento, l’emigrazione degli italiani all’estero, che come centri per l’educazione: «Mezzo milione di siciliani in quegli anni andava all’estero a cercare migliore fortuna - racconta l’ex giornalista de L’Ora di Palermo Carmelo Miduri, che sul tracomatosario ha scritto un libro, “I bambini della Croce bianca”, divenuto anche uno spettacolo teatrale - possiamo paragonarlo oggi ai migranti che arrivano sulle nostre coste. Ora come allora ci chiediamo perché rischiare la vita per arrivare fino alle coste siciliane oggi, o agli orfanotrofi allora, e la risposta è che in entrambi i modi si rischiava la vita. Allora infatti le famiglie non riuscivano a sfamare tutti e se il padre andava all’estero i bambini venivano affidati agli orfanotrofi che diventarono un vero e proprio business, come oggi i centri di accoglienza. Nel caso del tracomatosario, infatti, nessuno aveva il tracoma, ma così veniva fatto credere loro: erano tutti classificati come T1 anche se ci vedevano benissimo, e ogni giorno veniva passata sugli occhi la pomata».

Alfredo D'Amato / Panospictures

Come racconta sempre Miduri, nelle guide sull’Italia dei soldati americani c’era scritto che in quei luoghi bisognava fare attenzione alle donne e ai bambini, le prime per la sifilide, i secondi proprio per il tracoma. La farsa del tracoma andò avanti per parecchi anni, fino al 1965 quando il centro chiuse i battenti, con tanto di interrogazioni parlamentari che ne volevano bloccare la chiusura. I cavalieri dell’ordine di Malta non avevano intenzione di continuare l’investimento in quel luogo e abbandonarono la sede che non ha avuto nessun futuro, se non per una parte che è stata recuperata dall’azienda sanitaria provinciale di Agrigento, oggi ancora funzionante. Se il parco, un tempo utilizzato dagli sposi bivonesi per le foto del matrimonio, verrà recuperato grazie a un finanziamento, dentro la sezione vandalizzata sono rimaste le grida soffocate dei bambini che piangevano e venivano rinchiusi anche per interi giorni nei locali dove veniva bruciato il carbone, al buio e senza cibo.

 

Le notti con il nero del buio e del carbone erano alternate ad altre giornate in cui alcuni bambini erano costretti ad altri abusi, questi da parte del prete che stava all’interno della struttura: «Ci chiamava a turno, uno per uno, in biblioteca per prendere un libro - racconta ancora Luca - e poi ci toccava le parti intime». Il racconto è confermato da un’altra persona G.R., adesso 64 anni, che descrive il sacerdote della struttura come un «gran pedofilo che mi ha portato a odiare tutti gli altri preti che ho conosciuto». C’era chi faceva la pipì a letto per i traumi che subiva durante il giorno, venendo poi punito anche per questo motivo dalle persone che invece avrebbero dovuto prendersi cura di questi bambini. La salvezza era lontana, fuori da quelle mura e da quel bosco che di notte faceva paura.

 

Alcuni di questi bambini la fuga l’hanno provata nel 1964 ma dopo un giorno passato all’addiaccio sono stati ritrovati dai carabinieri di Bivona che avevano perlustrato tutta la zona. «Qualche mese dopo però, senza dare spiegazioni - racconta Luca - la struttura chiuse i battenti e noi fummo rimandati a casa».

 

L’anno successivo a casa del giovane, ormai ultrasessantenne, arrivarono i carabinieri, facendo domande sugli anni passati in quel luogo. I ricordi però sono ormai sbiaditi dal tempo anche se le ferite fanno ancora male e per altri sono state letali: «Uno dei ragazzi con cui ero rinchiuso in quel posto si è suicidato in carcere dopo che era stato arrestato per aver violentato la figlia, un altro è stato rinchiuso in un centro psichiatrico, io sono dovuto scappare dalla Sicilia, dove ho lavorato sin da piccolo dopo aver odiato i miei genitori per avermi portato in quel posto».

 

L’ex bambino è convinto che raccontare la storia possa aiutare altri ancora in difficoltà oggi: «Quanto è successo a Licata qualche tempo fa ad esempio (dove i bambini venivano legati al letto con le catene, ndr) fa capire quanto lavoro ci sia ancora da fare. A quel tempo per noi era impossibile denunciare anche le violenze, perché ci dicevano che ci avrebbero punito e nessuno parlava, quindi spero ci siano maggiori controlli oggi e che chi può si ribelli perché i bambini da soli non ce la fanno». Intanto, le porte del luogo dell’orrore di Bivona si sono chiuse dopo la fuga e il ritrovamento di quei ragazzi che ancora oggi non riescono a farsi una ragione sul perché fossero finiti in quel posto. 

 

Precisazione del 20 settembre 2022
Nella foto una persona estranea ai fatti