Quarantadue anni fa a Castelvetrano l’assassinio dell’amministratore scudocrociato. Il figlio: «Ucciso per il no ai boss nella gestione di appalti e banca locale. Eliminato con il piombo e infangato da morto»

«La morte di mio padre è l'omicidio “eccellente” dei Messina Denaro. Lo hanno massacrato come un vitello, “mascariato” come tutte le vittime della Dc e dimenticato nell'indifferenza. Ma chi ha vissuto quella stagione come il presidente Sergio Mattarella sa bene da che parte stava mio padre». È lo sfogo di Francesco Lipari, figlio di Vito Lipari, sette volte sindaco di Castelvetrano (Trapani) ucciso il 13 agosto 1980, rimasto nel limbo delle vittime di mafia.

 

Il suo nome con fatica ha trovato spazio nel ricordo della triste scia di sangue, che negli stessi anni a Palermo, portava agli omicidi “eccellenti” dei democristiani Michele Reina e Piersanti Mattarella e del comunista Pio La Torre.

 

E questo anche a causa dell'indifferenza delle istituzioni. Almeno fino a quando una lettera spedita alla famiglia dal capo dello Stato ha restituito alla memoria di Lipari lo spessore dovuto.

 

L'assassinio del sindaco fu un agguato in pieno stile mafioso. La vittima era a bordo della sua auto, lungo la strada che collega Castelvetrano a Selinunte, quando i sicari gli spararono con un fucile e due revolver. 

 

Le indagini sull’omicidio franarono presto insieme all’instabile castello giudiziario, reso fragile anche dalle false dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

 

In quegli anni, Lipari era uno dei dirigenti rampanti dell'area di riferimento dell’ex ministro degli Affari esteri Attilio Ruffini, primo dei non eletti, con 46 mila voti, alle elezioni parlamentari del 1976 e in ultimo anche direttore del consorzio Asi, l’area di sviluppo industriale, che si occupava dell'assegnazione di alcuni appalti delicati.

 

«Mio padre – racconta Francesco – non ha mai intascato alcuna tangente, di questo ne sono certo, anche se ricordo il via vai che c'era a casa e la fila davanti al portone di ingresso. Gli venivano rivolte preghiere per assunzioni e favori, perfino da me, per conto dei miei compagni di scuola. Un giorno l'arciprete mi chiese se potevo parlare con mio padre per un suo nipote». Quella di Lipari fu un'ascesa gestita «con decisa spregiudicatezza», scrivono i giudici, anche in relazione ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi arrestati dal giudice Giovanni Falcone nel 1984 per associazione mafiosa. Il primo morì durante il processo, il secondo fu condannato a tre anni in Appello e ucciso nel 1992, poco dopo le Stragi di Capaci e via d'Amelio.

 

«Ma non si scrive mai che mio padre era amico intimo del maresciallo Giuliano Guazzelli, che frequentava spesso casa nostra», aggiunge Francesco, riferendosi al carabiniere, ucciso, anche lui, nel 1992 siciliano. «Chiaramente con i Salvo c'erano dei collegamenti, degli incontri, ma di certo mio padre non andò mai sulle loro barche a parlare degli affari pubblici», dice ancora Francesco Lipari: «Nel ’79 fecero circolare nel mondo politico l’avvertenza di stare attenti perché i Corleonesi stavano per alzare il tiro». Tuttavia, Francesco Lipari rimane convinto che il padre «non sia stato ucciso dai nemici dei Salvo», ma che la morte del padre «sia maturata nell’ambito degli interessi mafiosi ed economici di Castelvetrano».

 

È quanto in effetti è emerso, alla fine di un tortuoso percorso giudiziario su un omicidio che sembrava già risolto dopo poche ore. A 30 chilometri di distanza dal luogo del delitto i carabinieri, durante un servizio di controllo straordinario avevano fermato due auto. Una con il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate ed un suo uomo; nell'altra Nitto Santapaola, capomafia di Catania e altri due mafiosi: tutti arrestati e scarcerati pochi giorni dopo, anche con la complicità di un ufficiale dei carabinieri, e infine nuovamente arrestati.

 

I boss furono collegati al delitto autorizzando una pista suggestiva, sulla rotta Catania-Trapani, smontata nel 1992 dalla corte d’Appello di Palermo, che la definì «assolutamente contro ogni logica». Bocciando anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, oggi sconfessato dai tribunali, che dopo una prima ritrattazione, continuò a testimoniare, nonostante fosse saltata fuori una lettera, scritta durante una precedente detenzione, in cui preannunciava al suo legale di voler utilizzare il caso Lipari per accreditarsi con la giustizia.

 

Il ruolo della mafia di Castelvetrano è emerso soltanto dopo l’inizio della collaborazione con i magistrati di Vincenzo Sinacori, reggente di Mazara del Vallo, detto “ancidda” (anguilla), arrestato nel 1996, che si è autoaccusato dell’omicidio Lipari. Sinacori dice di avervi partecipato con i mazaresi Andrea Gancitano e Giovanni Leone e con Antonino Nastasi di Castelvetrano. Il pentito però sarà l'unico condannato, gli altri assolti per insufficienza di prove. «Andando oltre le sentenze, è chiaro il ruolo di Nastasi e della mafia di Castelvetrano, anche alla luce degli sviluppi successivi», dice il figlio del sindaco ucciso. Il riferimento è proprio a Nastasi che, secondo il racconto di alcuni pentiti, è stato il custode dell’esplosivo deflagrato il 27 luglio 1993, davanti al Pac di via Palestro a Milano, quasi in contemporanea con gli attentati alle chiese di Roma.

 

Quale il movente dell’omicidio? Il figlio di Lipari ne indica uno con determinazione. E argomenta: «Fino alla morte di mio padre, la raccolta dei rifiuti era pubblica, nel 1983 ha inizio invece l’era della Ecolsicula, da cui mio padre era stato avvicinato in precedenza, rifiutando ogni contatto. E dopo l’omicidio ha gestito i rifiuti praticamente fino a dieci anni fa». A porre fine all’appalto un blitz antimafia del 2012. Dalle indagini venne fuori proprio il ruolo di Nastasi nell’azienda dei rifiuti intestata al cugino Gaspare Spallino. «E sempre dopo la morte di mio padre, casualmente la Cassa Rurale e Artigiana di Castelvetrano va in mano ai socialisti e nel consiglio d'amministrazione entra proprio Spallino, dietro al quale c'era sempre Nastasi. Per questo dico che è loro la firma sull’agguato: dei Nastasi, dei Messina Denaro, della mafia di Castelvetrano.

 

Così come sono sicuro che è loro la volontà di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, perché parlando del processo per l'omicidio di mio padre, rischiava di avvicinarsi alla verità. E anche nel caso Rostagno al delitto è seguito un depistaggio». Un’ipotesi, quest’ultima, rilanciata durante il processo per l’omicidio del giornalista assassinato il 26 settembre 1988. Rostagno era autore di alcuni speciali sull’omicidio Lipari, con tanto di riprese del boss Agate, recluso dietro le sbarre. In un’occasione il boss chiamò un cameraman di Rtc, la televisione in cui lavorava Rostagno: «Dicci a chiddu ca vaivva chi la finisce (Dì a quello con la barba di finirla)», fu l’avvertimento.

 

Racconta ancora Lipari: «Ad un anno dalla morte di mio padre, dei suoi amici avevano sistemato un busto in bronzo davanti alla lapide e nottetempo, nonostante ci fosse il custode, qualcuno entrò nel cimitero, aprì la porta della cappella e buttò il busto in mezzo al parco. Si disse che era opera di un pazzo, ma alcuni anni fa è successa una cosa analoga, nella tomba di Lorenzo Cimarosa, il metodo è lo stesso». Accadde nel 2017 e la tomba presa di mira allora fu quella del cugino acquisito di Matteo Messina Denaro, Lorenzo Cimarosa. Dopo l’arresto aveva iniziato collaborare alle indagini sul latitante e il suo cerchio magico. Lo sfregio alla memoria fu un’ulteriore ritorsione di Cosa nostra.

 

Il figlio di Lipari racconta di un percorso, che lo ha portato a «non avercela più con i presunti esecutori del delitto ma piuttosto con «quelli che dopo hanno cercato di “mascariare” mio padre. E molti lo hanno fatto a Castelvetrano, per paura di accreditare la pista mafiosa, anche per questo ho apprezzato tanto il messaggio del Presidente».

 

Nella lettera, Mattarella, nel quarantesimo anniversario dell’omicidio, esprime «la sua vicinanza nel ricordo di un uomo di grande spessore umano e politico che ha perso la vita per essersi opposto alla violenza mafiosa». Eppure, tutt'oggi, il 13 agosto è una data poco ricordata a Castelvetrano e commemorata soltanto dai familiari. Anche quest'anno. All'interno del parco archeologico di Selinunte c'è stato un importante festival di musica elettronica, dal nome “Musica &Legalità”, con un dj di fama internazionale e la presenza del capitano Ultimo, al secolo Sergio de Caprio, l’ufficiale che rivendica la cattura del superboss Salvatore Riina. Eppure, nessuno si è ricordato di Lipari. «C'è un'indifferenza violenta nei confronti della figura di mio padre, l'antimafia si è limitata a pensare che tutti i morti della Dc, in fondo, erano dei collusi uccisi per regolamento di conti, ignorando l'altra faccia della storia. Mi piacerebbe poter celebrare la sua figura con il Comune di Castelvetrano e confutare con i fatti l'assenza delle Istituzioni».