Da direttore dell’Ufficio Registro denunciò faccendieri e corrotti e per questo fu ucciso nel 1995. La figlia non trovò nessun medico disposto ad assisterla per l’autopsia. Perché l’intera città decise di far finta di nulla

Trentuno marzo 1995, è un venerdì sera, Francesco Marcone, 57 anni, ha appena aperto il portone del palazzo in cui abita. Ha le mani occupate: in una tiene la busta della spesa con la carne appena ritirata in macelleria e nell’altra ha la cartella con le pratiche di lavoro che si è portato a casa. Da una parte il padre, dall’altra il funzionario dello Stato. Lo uccidono con due colpi di pistola. All’agguato sfugge per un soffio la figlia Daniela, prossima alla laurea in Giurisprudenza che proprio in quell’istante sta tornando a casa. 

 

Siamo a Foggia e l’uomo che si accascia nell’atrio è il direttore dell’Ufficio del Registro della città che solo qualche settimana prima ha denunciato in Procura i faccendieri che promettono di facilitare le pratiche e intascano mazzette. Non si è limitato a presentare un esposto. Ha mandato una lettera ai notai e ai commercialisti per metterli in guardia, diffidandoli dal dare credito a chi millanta scorciatoie burocratiche. E la cosa è finita sul giornale. In solitudine ha rivisto fascicoli su fascicoli, bloccato pratiche irregolari e denunciato anomalie. Ha imposto il rigore formale sugli atti che arrivavano alla sua firma. E, come ha calcolato l’allora vicepresidente della commissione Antimafia Nichi Vendola, lo Stato ha recuperato grazie a Marcone imposte per 3 miliardi di lire. Una cifra enorme per l’epoca.

La vita esemplare di un eroe borghese dimenticato è ora ricordata in “Storia di Franco” (La Meridiana), riedizione del libro scritto dalla sorella Maria e nel graphic novel “Francesco Marcone, un uomo onesto” di Ilaria Ferramosca e Giuseppe Guida (Round Robin). Ne viene fuori il ritratto di un funzionario integerrimo, cresciuto in una Foggia ferita dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e in una famiglia segnata anche economicamente dalla prematura scomparsa del padre. 

 

Il 23 maggio del 1992, tre anni prima che lo ammazzassero, come milioni di italiani anche Francesco Marcone, aveva visto in tv le immagini del cratere di Capaci, a Palermo, causato dalla bomba che aveva ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. Accanto a lui c’era Daniela. «Gli chiesi: “Possibile che le mafie siano capaci di fare questo?”. E poi aggiunsi: “Per fortuna qui non corriamo questi pericoli”. Lui mi rispose semplicemente: “Ne sei proprio sicura?”. Tante volte mi sono chiesta cosa sentisse, se avesse già capito che qualcosa si stava muovendo contro di lui», racconta la figlia. «Erano anni cruciali per il suo impegno lavorativo. Era arrivato a Foggia nel 1990 e immagino che nel 1992 si fosse già reso conto della situazione», riflette Daniela Marcone.

 

Perché la storia del padre si intreccia con quella delle connivenze della sua città, nella quale Francesco Marcone, dopo alcuni anni al Nord, era tornato alla testa di un ufficio con una sessantina di dipendenti non tutti ligi alle regole. Il sistema tenta subito di blandirlo. Qualcuno all’inizio, si legge nel libro della sorella, prova ad avvicinarlo, ad ingraziarselo con dei regali e lui, per tutta risposta, denuncia. Perché non ha a cuore soltanto la propria integrità, vuole lasciare il segno, provare a moralizzare l’intero ufficio, blindarlo dai maneggi di funzionari infedeli. E a questi principi consacra l’intera sua attività, diventando suo malgrado un bersaglio. Il funzionario è conscio di essersi esposto sempre di più ed è consapevole dei rischi.

 

«Negli ultimi tempi lo vedevamo amareggiato. Si raccomandò con me e mio fratello Paolo di prendere sempre l’ascensore quando uscivamo e guardare chi ci fosse nel portone. Questa cosa mi ha dato la sensazione che lui avesse il sentore che tutti fossimo un po’ in pericolo, anche se non lo disse mai esplicitamente a nessuno», ricorda la figlia.

Dopo l’omicidio, la famiglia, insieme con il dolore, sperimentò sulla propria pelle l’ostilità di una città. «Ho capito subito quale sarebbe stata la mia vita quando mi chiamarono dall’ospedale per chiedermi di nominare un medico legale di parte per l’autopsia. Non sapevo a chi rivolgermi, provai con il nostro medico di famiglia che ebbe il terrore di esporsi e declinò. Lo chiesi a tanti altri professionisti senza ricevere alcuna risposta. Ero disperata e mi chiedevo: “Possibile che non ci sia nessuno disposto a darci una mano?”. Avevano tutti paura. Il giorno del funerale ebbi netta la percezione che la mia esistenza di prima finiva lì e iniziava un capitolo nuovo», racconta Daniela.

 

Dopo il clamore delle esequie di Stato anche gli amici si dileguarono. Qualcuno ha impiegato anni prima di riallacciare i rapporti. «Una mia cara amica mi confidò che i genitori le avevano sconsigliato di frequentarmi perché mio padre era stato ucciso. Qualcun altro disse che dovevo piangere mio padre in privato perché stavo mettendo Foggia in cattiva luce». 

 

La stessa idea che anche Foggia fosse ostaggio di un sistema criminale era messa in discussione. In tanti negavano l’esistenza di quella mafia locale che solo dal 2021 ha portato allo scioglimento del Comune e di altri cinque amministrazioni dell’hinterland. Una dura presa di coscienza che passa anche per la memoria della morte senza colpevoli di Marcone, definito «l’Ambrosoli del sud», ma la cui storia non ha mai superato i confini della provincia, complice la voglia di rimozione alimentata dai troppi silenzi dei suoi concittadini per i quali si era speso.

 

Solo dopo la morte di Marcone, nel 1996, arrivarono gli avvisi di garanzia all’indirizzo di dirigenti dello Stato e imprenditori locali sospettati di essere coinvolti nelle vicende oggetto delle denunce del direttore dell’Ufficio Registro. Mentre l’inchiesta sull’omicidio si è infranta sulle archiviazioni. Nessuna pista ha portato ai mandanti e agli esecutori, nonostante Marcone sia stato riconosciuto "vittima del dovere” dal ministero dell’Interno, insignito della medaglia d’oro al valor civile e il suo nome figuri nell’elenco delle vittime della mafia stilato da Libera.

 

«Anche se non c’è una sentenza a certificarlo, la stessa sera del delitto, sul portone di casa, un poliziotto mi disse che dovevo essere forte perché mio padre era stato ucciso dalla mafia», racconta Daniela. La matrice era chiara ma le indagini non brillarono per solerzia. «Per otto mesi a parte i rilievi nell’androne, non è stato fatto nulla. Non siamo stati mai chiamati e neppure i suoi colleghi. È stato un ritardo dannosissimo. Anche perché durante quel lungo lasso di tempo alcune pratiche che avrebbero potuto offrire spunti potrebbero essere sparite. Poi, grazie ad alcuni magistrati, il contesto mafioso è venuto fuori, pur senza risultati concreti. Eppure, quando riprendo in mano le carte vedo una tale evidenza di meccanismi mafiosi che davvero mi chiedo come sia stato possibile che allora si avesse così paura di leggere i fatti», riflette Daniela. Le sue domande senza risposta sono quelle del gip Lucia Navazio nell’archiviazione: «Un contributo alle indagini poteva essere dato in prima battuta da soggetti inseriti nel circuito sano della società civile, chiaramente venuti meno a quel dovere civico di collaborazione». Un atto d’accusa al clima di omertà che ha coperto la fine di Marcone. Daniela Marcone ha invocato giustizia e bussato alle porte di chi doveva dargliela, ha poi provato a dare un senso quotidiano al proprio dolore, impegnandosi quotidianamente con Libera.   

 

Sulla scia della vicenda personale che l’ha colpita e con l’esempio del padre, per sei anni è stata vicepresidente e oggi è responsabile dell’area memoria dell’associazione.

 

«In certi momenti, nella battaglia contro le mafie non basta l’ordinarietà dell’impegno ma servono sforzi straordinari. Perché la mafia è uno stato dentro lo Stato ed è proprio la ragione per cui ha il connotato dell’invincibilità. Stando dentro Libera quella rabbia iniziale me la sono ingoiata, perché ho incontrato magistrati che hanno speso la loro vita per cercare di cambiare le cose e ho maturato l’amarezza di chi ha visto ritrarsi persone che avrebbero potuto fare la differenza nella mia vita se solo avessero voluto», spiega. Nelle sue parole ricorre spesso la parola solitudine. Ricorre in riferimento a quello che per anni, con il distacco necessario, indispensabile per non cedere alla disperazione, ha chiamato il «caso Marcone». Ma ritorna quando tiene a ribadire che di uomini come suo padre negli uffici della pubblica amministrazione ce ne sono tanti. 

 

E quando l’allora ministro Renato Brunetta nel 2008 bollò come fannulloni i dipendenti pubblici, c’era anche Daniela Marcone a insorgere rivendicando con orgoglio la propria storia e quella della maggioranza dei tre milioni e mezzo di dipendenti, spesso mandati allo sbaraglio e lasciati senza mezzi a rappresentare lo Stato.