Le politiche Ue sull’immigrazione puntano alla cristallizzazione di pratiche illegittime che vanno avanti da anni. Esternalizzando le frontiere e creando di luoghi di detenzione arbitraria

Invece di contare i morti in mare spostiamoli più in là. Sembra questo il principio che guida non solo la recente intesa raggiunta dai governi europei su come riformare la gestione dei flussi di migranti e richiedenti asilo ma anche le politiche sull’immigrazione che l’Unione porta avanti da anni: esternalizzazione delle frontiere per fare in modo che sempre meno persone sognino di raggiungere l’Europa. Per limitare il numero di chi presenta la domanda di protezione all’interno del territorio comunitario, proprio come è successo in seguito agli accordi che l’Ue ha stipulato con la Turchia e la Libia. Che bloccano i migranti negli Stati che confinano con l’Unione, sebbene le garanzie di tutela che questi Paesi dovrebbero fornire restino solo sulla carta dei patti bilaterali.

 

«Funzionano certo, ma sulle spalle dei diritti delle persone», commenta Adelaide Massimi, project officer di Sciabaca e Oruka, uno dei progetti con cui Asgi, l’associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione, promuove azioni di contenzioso strategico per contrastare le violazioni di diritti umani derivanti dal finanziamento e dall’attuazione di politiche di esternalizzazione delle frontiere.

 

«L’intesa raggiunta dall’Unione lo scorso 8 giugno è il risultato di un processo che va avanti da anni. E riguarda solo due dei cinque regolamenti che compongono la riforma del Patto sulla migrazione e l’asilo presentata nel settembre 2020 dalla Commissione. Quello che è stato definito un nuovo corso in realtà di nuovo ha poco: è, almeno in parte, la cristallizzazione di prassi illegittime che esistono da tempo. Sperimentate lungo le frontiere, in particolare lungo i confini di Italia, Grecia e Ungheria, negli hotspot e nelle zone di transito, dove vengono arbitrariamente trattenute le persone migranti», spiega Massimi prima di descrivere i punti principali che caratterizzano l’intesa approvata dal Consiglio giustizia e affari interni riunito in Lussemburgo, che però è lontano dall’entrata in vigore:

 

1) Gli Stati europei dovranno partecipare alla redistribuzione dei migranti con una quota minima di 30mila ricollocamenti ogni anno. O potranno pagare un contributo di 20mila euro per migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne.

2) In alcuni casi, se ad esempio il richiedente ha una nazionalità con un tasso di riconoscimento inferiore al 20 per cento, l’esame delle domande di asilo seguirà la “procedura di frontiera”, un iter accelerato e sommario.

3) Gli Stati europei avranno autonomia nel definire un Paese di partenza o di transito come «sicuro». Quindi potranno rimpatriare i migranti anche in un Paese di transito, non solo in quello di origine.

 

«Infine, non c’è una modifica effettiva alle storture del regolamento Dublino. Anzi c’è un rafforzamento del criterio di primo ingresso che allunga i tempi delle responsabilità del Paese d’approdo su cui continua a gravare il peso dell’accoglienza dei migranti e la valutazione delle loro domande d’asilo. Così il prerequisito per il funzionamento del patto sull’immigrazione Ue diventa il rafforzamento degli accordi di rimpatrio con gli Stati terzi e dei dispositivi di controllo della mobilità nei Paesi di transito», conclude Massimi.

 

«Con la procedura accelerata in frontiera stiamo aggirando la convenzione di Ginevra, per smantellare il diritto alla protezione internazionale. Che in questo modo non è più il diritto del cittadino di essere accolto da uno Stato sicuro ma diventa la facoltà di presentare un’istanza amministrativa che non legittima l'accesso al territorio», aggiunge l’avvocato di Asgi Nicola Datena: «Con la legge 50/2023 (il decreto Cutro ndr) l’Italia sperimenta fino a che punto è possibile demolire il sistema costruito alla fine della Seconda guerra mondiale a tutela dei diritti fondamentali, alla base dell'ordinamento europeo. Perché, in linea con il patto Ue, tenta di realizzare la “finzione giuridica di non ingresso”, che porta alla creazione di luoghi di detenzione considerati, in spregio ai principi del nostro ordinamento e delle decisioni della giurisprudenza, fuori dal territorio nazionale, pur essendo dentro i confini italiani».