Nel 2015 la lavoratrice moriva nelle campagne pugliesi in cui era impiegata per tre euro l'ora. La Procura impugna la sentenza di assoluzione dall'accusa di omicidio colposo per il datore di lavoro. Mentre l'altro filone giudiziario rischia di finire prescritto

Le braccia alzate, sopra il capo e distanti dagli occhi; la testa reclinata e lo sguardo in alto, a un’altezza di 170 cm per lei alta all’incirca 155 cm: al dunque, le braccia – senza appoggio - tese per 7-8 ore al giorno, posando i piedi su sgabelli e trespoli per raggiungere il grappolo d’uva, eliminarne gli acini sottosviluppati e ottenere, così, un prodotto uniforme ed esteticamente migliore. Un processo noto in gergo come acinellatura

 

Ecco: era un’operaia addetta all’acinellatura, Paola Clemente, prima di diventare la martire a cui si deve la più recente norma sul caporalato. La 199 del 2016, introdotta proprio sulla spinta emotiva legata alla sua morte, avvenuta il 13 luglio del 2015, in contrada Zagaria, nell’agro di Andria, a circa 160 chilometri da casa. Era una bracciante Paola Clemente, come centinaia di colleghe impiegata nei fondi pugliesi, a 27 euro al giorno - all’incirca 3 all’ora - e una busta paga artefatta, secondo l’accusa di un filone processuale, senza possibilità di ribellarsi alle condizioni di sfruttamento. Era e non lo è più. 

 

Ma il rischio, occorso dopo anni di solidarietà attorno alla vicenda di una lavoratrice neppure cinquantenne stroncata da una sindrome coronarica acuta mentre lavorava a 31 gradi alle 8 del mattino, era di parlare di una donna morta senza giustizia. Perché dei due fascicoli aperti sul caso - l’uno, quello per omicidio colposo a carico del proprietario del fondo su cui lavorava, l’altro con sei imputati per caporalato – il primo s’era chiuso con un’assoluzione; il secondo, invece, rischiava e rischia ancora di cadere sotto la scure delle lungaggini giuridiche, con al varco la prescrizione. 

 

Ora, a distanza di mesi dalla pronuncia assolutoria, uno spiraglio: l’impugnazione della sentenza operata dalla procura. Che non ci sta all’assenza del nesso eziologico – dunque, di un filo unico che leghi le condotte ai fatti – tra le omissioni dell’imputato, Luigi Terrone, e la morte di Paola Clemente. Ritenuta invece, dalla pm, l’ultimo anello d’una cascata di eventi legata alla mancanza di una idonea catena della sopravvivenza, che sarebbe stato compito del datore approntare. Dall’assenza di lavoratori addetti al primo soccorso a ulteriori negligenze: l’omissione delle necessarie visite mediche dei braccianti, l’assenza di comunicazione dei rischi connessi alla mansione, l’omessa sorveglianza sanitaria. 

 

L’assoluzione era intervenuta malgrado le perizie in cui s’attesta che alla sua morte «può ritenersi che contribuirono in misura concausale le rilevanti condotte ascritte all'imputato». Sebbene nella formula assolutoria la giudice scriva che dagli atti non è neppure emersa prova certa dell’innocenza dell’imputato: ed è in questo interstizio che s’incunea la procura. Con un atto che ravviva la speranza di Stefano Arcuri, marito di Paola. «La politica – dice - ha fatto il suo, ora tocca alla magistratura dare un segnale per rompere il monopolio del caporalato». 

 

Della condizione della moglie serba ancora nitidi i ricordi. «Lavorava sotto i tendoni a temperature altissime: quando usciva mi raccontava che aveva brividi di freddo, mentre noi boccheggiavamo». Lavorava per pochi spicci, come spesso accade ancora nelle campagne pugliesi, come spiega Antonio Gagliardi, segretario generale della Flai Cgil, la cui sezione tarantina è costituita nel filone sul caporalato con l’avvocato Claudio Petrone. «Almeno il 55 per cento delle aziende generalmente non sono in regola. Le imprese non virtuose catalogano il sistema del caporalato come funzionale all’economia: cioè, se non mi rivolgo al caporale rischio di non produrre». Per questo le battaglie giudiziarie contro lo sfruttamento sono importanti. Ma anche in questo caso rischiano di cadere in prescrizione, come ricorda anche il legale dei familiari Giovanni Vinci. Evenienza a cui Stefano Arcuri risponde così: «Se si prescrive il reato non è la famiglia di Paola a perdere. Il segno che vorremmo far arrivare è che nessun figlio debba piangere la propria madre come è capitato a noi. Se non si riesce a debellare bisogna almeno colpire il caporalato per dire che lo Stato è presente. Paola non torna più in vita, ma – chiude - la cambia a tanta altra gente che continua a morire ed essere sfruttata».