Dopo il femminicidio di Giulia ha dato voce alle ragazze e alle donne. Per trasformare il proprio dolore in un’occasione di cambiamento nel segno della lotta al patriarcato. «Sono molto fiduciosa del fatto che l’Italia prima o poi possa diventare un posto dove ci si può sentire sicure. Serve consapevolezza: dobbiamo accettarlo per poter migliorare, ma so che si può fare». L’Espresso l’ha scelta come persona dell'anno. Per ricordare cosa è stato il 2023 e cosa sperare per il futuro

È la benedizione dentro la maledizione, la trasformazione dentro alla morte, il coraggio dentro la tragedia, la lotta dentro la devastazione. Anche il suo nome ha nascosta nella radice un’etimologia che indica splendore: «elane», fiaccola. «Elena sei la sorella di tutte noi», è il cartello semplice, piccolo, scritto sulla carta da pacchi marrone chiaro che si è riportata indietro da una manifestazione e ora tiene sulla scrivania, nella casa di famiglia a Vigonovo, per farsi forza. Si chiama Elena la sorella maggiore di Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dal suo ex fidanzato Filippo Turetta, ma in queste settimane è stata paragonata a un’altra figura della mitologia greca: Antigone, vittima ed eroina, dissidente in un mondo di uomini, l’unica capace come racconta Sofocle di sfidare il tiranno Creonte e le leggi della polis pur di seppellire suo fratello Polinice. Ma Elena Cecchettin non si sente vittima o eroina, «all’inizio non sapevo nemmeno se il paragone fosse positivo o negativo». Ha studiato informatica alle superiori, all’università è iscritta a una facoltà scientifica, quindi niente letteratura greca nel suo curriculum: di Antigone è andata a leggersi bene la storia solo ora, se l’è fatta spiegare meglio dalle compagne di scuola di sua sorella che hanno studiato al liceo classico. Adesso, dice, «un po’ ne sono orgogliosa».

 

Editoriale
Ecco perché Elena Cecchettin è la persona dell'anno per L'Espresso
28-12-2023

 

Dissidente in un mondo di uomini e adesso anche di social, per poter seppellire sua sorella Elena ha denunciato cosa l’avesse uccisa: non l’eccezione ma la regola, non solo una persona ma anche un sistema di potere, antico: «Turetta viene spesso definito come mostro invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro», è così che comincia la sua lettera ai giornali, sono state queste le parole con le quali, anche in televisione, ha denunciato il fondo scuro su cui si regge l’omicidio della sua sorella minore. Parole scoccate con una precisione assoluta – anche martedì 19 a Riese, 47 chilometri da Vigonovo, Vanessa Ballan è stata ammazzata con sette coltellate – una fotografia d’Italia che tanti non vogliono vedere e che al contrario tanti pensano sia ora che tutti vedano: «Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere». È così che ha scavalcato il muro della cronaca, ha creato un’emozione collettiva, ha trasformato il dolore di una sorella in un’occasione di cambiamento per tutti. Per fare un passo avanti nella lotta al patriarcato.

 

L’ha fatto a 24 anni al prezzo di un mare d’odio, che le si è puntualmente riversato addosso, l’ha fatto anche a costo di privarsi anche di quel residuo di anonimato che lei, introversa e timida, considerava un privilegio. «Ma ho fatto soltanto quello che sono abituata a fare, sin da bambina, cioè che quando vedo un’ingiustizia, quando sento che qualcosa è sbagliato, devo dire la mia. Non pensavo di riuscire veramente a far arrivare il messaggio. Ma sentivo di avere una voce, amplificata dalla morbosità dei media di voler sapere qualsiasi cosa riguardasse la faccenda. Ho pensato: sono in una situazione orribile, ma ho delle cose da dire e vogliono che le sentano tutti, quindi sfrutto il loro gioco. Lo so benissimo che sono andata in una trasmissione che molto probabilmente non avrebbe colto quello che intendevo, però, ho pensato “sono in diretta, non mi possono tagliare, e se c’è una persona che può essere aiutata da questa cosa voglio che sia così”. Sono contenta che quelle parole siano state prese sul serio e che di fatto le persone abbiano iniziato ad avere voglia di realizzare quel cambiamento che già desideravano, però non avevo la presunzione di essere in grado di fare una cosa del genere. E anzi, quando hanno cominciato a dirmi “Elena stai facendo la differenza” o quando una mia amica mi ha girato messaggi in cui si diceva che il giorno dopo il mio intervento sono raddoppiate le chiamate ai numeri antiviolenza, pensavo che mi stessero facendo la sviolinata per tirarmi su di morale. Non l’avevo proprio considerato, e comunque non penso di essere speciale, le cose che ho detto le ho imparate da altri, ho raccolto le esperienze di tante persone, mi sono informata».

 

E qui viene un altro elemento di contemporaneità, perché Elena, se le si chiede come ha fatto ad arrivare a essere così lucida nella sua denuncia spiega che una buona parte della sua formazione deriva dai social. Oltreché, ovviamente, dalla sua esperienza diretta: «Dal semplice fatto di essere una donna in questa società: tante cose brutte e degradanti le ho vissute sulla mia pelle, essendo una ragazza giovane mi è capitato più e più volte di essere vittima di “cat calling”, in tutti i contesti possibili e qualunque cosa indossassi. Ho avuto più e più volte commenti sessisti su quello che stavo facendo, sulle mie capacità in generale in quanto donna. Ho anche frequentato una scuola superiore prevalentemente maschile quindi ho presente i commenti che venivano fatti su me e le altre ragazze, che si ripetevano poi anche al bar o in strada. Io e Giulia amavamo molto andare in bicicletta, è capitato quasi sempre, anche tre volte all’interno della stessa passeggiata, che una macchina suonasse il clacson e non certo con un intento di avvertimento per i ciclisti».

 

Elena ha frequentato collettivi e movimenti, si potrebbe dire che è sempre stata politicamente attiva anche in Rete, chiarisce però che «tantissima della mia cultura sul punto viene dai social media: può sembrare cosa strana però di fatto sono uno strumento potentissimo in realtà per reperire delle informazioni, che poi vanno verificate, sono il punto di partenza. Sono sempre stata una persona che è stata un po’ sulle scatole a tante, perché bisticciavo sempre per quello in cui credevo: ma tutto questo è andato a crescere, più mi informavo e mi rendevo conto di quante siano le disparità. I social sono stati una risorsa perché da là ho scoperto anche tante correnti, i diversi tipi di femminismo, il trans-femminismo, il femminismo intersezionale, l’antirazzismo, l’antifascismo, cose che poi sono andata ad approfondire da altre fonti, leggendo libri, articoli scientifici, report, interviste, guardando video su YouTube, ascoltando podcast, e anche ovviamente confrontandomi perché alla fine la prima cosa che dobbiamo fare è ascoltare le persone. Non c’è un altro modo per capire di cosa ha bisogno e cosa prova un gruppo sociale, una minoranza, e di fatto io ho ascoltato tanto».

 

Una conoscenza orizzontale, dalla quale Elena non estrae un autore o un’autrice in particolare. Contemporanea è questa attitudine a non stare su un nome, a non legarsi a uno stereotipo, a un’identità precisa. Corrisponde a quello che Giorgia Serughetti, nel suo “La società esiste”, descrive come caratteristica delle «mobilitazioni più recenti, che si avvantaggiano della capacità di porsi meno interrogativi identitari – su chi è il soggetto che convoca, e quali sono i criteri per appartenervi – e più obiettivi politici legati a quello che Judith Butler ha chiamato il diritto di apparizione, il farsi presenza sulla scena pubblica delle domande di giustizia».

 

Nel suo chiedere giustizia, e rumore, Elena non ha interesse a lasciare tracce personali. Pur avendo una storia così anche tragicamente individuale non ama parlare di sé, dare dettagli della propria vita. Cerca di restare neutra, non essere individuata nella sua singolarità, se non come voce per una causa, per una domanda di giustizia. Il contrario dell’influencer, a pensarci, che invece utilizza tutto ciò che è e che fa per veicolare il proprio messaggio. E non è neanche pessimista: «Sono molto fiduciosa del fatto che l’Italia prima o poi possa diventare un posto dove ci si può sentire sicure, protette contro chi ti dà fastidio, tutelate. Mi rendo conto che abbiamo problemi grossi, ma serve consapevolezza: dobbiamo accettarlo per poter migliorare, ma so che si può fare, ci credo fermamente». Un atteggiamento particolarmente volenteroso, avendo migliaia di odiatori alle porte, e critiche provenienti da quelle parti dell’Italia convinte che il patriarcato non esista: «Non sono cose facili, sono temi scomodi anche perché nel momento in cui vai a far notare alle persone che traggono vantaggio da questo stato di disuguaglianza, ovviamente ti remano contro. Gli uomini sono in una posizione di privilegio e dovrebbero rinunciare a questo privilegio per poter rendere il mondo abitabile anche dalle donne in una maniera libera e sicura. Chiaramente ci sono degli uomini che vogliono mantenere questa situazione di disparità, perché loro ne traggono profitto e quindi dicono, per esempio, che il patriarcato non esiste. Oppure non hanno il coraggio di fare un esame di coscienza; a me quello che viene sempre detto è: “Eh, ma non siamo tutti Filippo Turetta”. Ma io non ho mai detto una cosa del genere. Dico che per avere un cambiamento, per evitare che queste situazioni si ripetano, bisogna farsi degli esami di coscienza, vedere dove sei andato a sbagliare con il tuo comportamento. Possono essere cose minime però guardiamole, non nascondiamoci. È molto facile sbagliare quando si ha un privilegio».

 

Aveva quindi previsto, Elena, che sarebbe stata anche molto contestata: «Però nessun attacco mi ha mai toccato; l’unica cosa che mi ha fatto stare un po’ male sono state le persone che hanno detto male di Giulia. Quello che ho letto su di me non mi interessa: reputo valida solo l’opinione di persone che stimo e non stimo il tizio a caso che mi dà della satanista, in anonimo, sotto le mie foto profilo. Quegli insulti sono proprio un sintomo del fatto che quello che dico è vero: nel momento in cui una ragazza denuncia una situazione spiacevole nella quale viviamo e vorrebbe giustizia, siccome è una ragazza si va a vedere com’è vestita, quali sono le sue passioni, non si ascolta veramente quello che sta dicendo». L’antidoto? «Sempre lo stesso. Imparare a decostruire, ad ascoltare quello che hanno da dire le persone che stanno vivendo un’ingiustizia sulla propria pelle. A credere a quello che dicono, senza assumere che quello che vedi tu da persona privilegiata sia la verità sulla vita di qualcun altro. Se le persone ascoltano e si mettono in discussione può arrivare il cambiamento sennò continueranno a prendere in giro le ragazze solo perché si vestono di nero, che poi è la sintesi di una moderna caccia alle streghe. Si tratta di fare un passo indietro, di mettersi in discussione, non è facile ma chiunque lo può fare, se vuole».

 

Intervistato da Fabio Fazio, suo padre Gino ha detto che a casa il soprannome di Elena è “l’essere superiore” e che è pronto a supportare qualsiasi sua battaglia. «In famiglia sono stata sempre quella con le idee meno conformiste e mi hanno sempre preso in giro sulla mia intelligenza, ad esempio quando al quarto anno delle superiori ho preso la certificazione per l’inglese mi hanno chiamata per mesi “C1”. Ma l’ho sempre percepita come una cosa ironica, uno scherzo, mai pensato ci fosse una base di verità». 

 

Quanto all’impegno per il futuro, «c’è un trend generale, un’aspettativa che tende a rendermi monodimensionale: la ragazza a cui è morta la sorella che adesso lotta per i diritti delle donne. Ma io sono una persona multidimensionale, una studentessa, un’artista, una cui piace andare nella natura, ho tante passioni, e voglio continuare a essere così anche perché penso che sia da un certo punto di vista rivoluzionario mantenere la propria identità nonostante le aspettative degli altri: mi sono sempre impegnata a livello sociale e politico per le lotte che pensavo fossero giuste e continuerò. Ma non ho pianificato di fare un’associazione, non ho pianificato di entrare in un partito politico o di fondarlo. Voglio continuare a essere Elena Cecchettin e se mio padre mi supporta sono contenta, ma non ho piani».