L’azienda Miteni per anni ha prodotto queste sostanze chimiche tossiche, che hanno contaminato la seconda falda più grande d’Europa. E che minacciano la salute di 350 mila cittadini tra Verona, Vicenza e Padova. Mentre analisi e precauzioni si fermano alla “zona rossa”

Cinquecentoventidue. Un numero che Antonietta non dimenticherà. È il carico di nanogrammi di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) presenti nel sangue di suo figlio. Una cifra che supera di 75 volte il limite di tolleranza stabilito dall’Istituto superiore di Sanità. Ottanta sono invece gli euro che Elisabetta spenderebbe se potesse fare le analisi del sangue, a cui non ha diritto perché vive nella zona arancione.

Siamo nel Veneto della Miteni, azienda che per anni ha prodotto Pfas — sostanze chimiche persistenti, talmente pericolose che l’Europa ha deciso di chiederne la messa al bando — e che di fatto ha inquinato la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Con conseguenze disastrose per quasi 350 mila abitanti, tanto che la Regione nel 2017 è costretta ad adottare un Piano straordinario di emergenza.

Il territorio tra Verona, Vicenza e Padova viene suddiviso in tre aree in base al rischio sanitario: area rossa, dove sono contaminate sia l’acqua potabile sia le falde acquifere e i fiumi; area arancione, in cui gli acquedotti hanno un livello d’inquinamento inferiore. E gialla, definita per lo più area di osservazione. Vengono posizionati dei filtri a carbone e si predispone la decontaminazione delle fonti di approvvigionamento idrico per la zona rossa, i cui abitanti vengono sottoposti a continue analisi del sangue.

Per il resto nulla. Nessun intervento sulle falde, con la cui acqua si irrigano i campi, sui fiumi, sul suolo, sull’aria. Ci si ferma ai “rubinetti” con risultati scarsissimi, che si sommano ai ritardi di una burocrazia elefantiaca tutta italiana. Per cui oggi Antonietta aspetta ancora l’allaccio all’acquedotto pulito ed Elisabetta prova a fare un test dopo che un istituto tedesco ha riscontrato nel sangue di suo figlio livelli di sostanze perfluoroalchiliche uguali a quelli dei bambini della zona rossa.

Una storia così scandalosa da far scendere in campo le Nazioni Unite che, per bocca di Marcos Orellana, relatore speciale su sostanze tossiche e diritti umani, ha manifestato dalle pagine de L’Espresso «preoccupazione per i cittadini del Veneto». Con conclusioni gravi verso la Miteni e per nulla generose nei confronti delle istituzioni, presentate in sede Onu lo scorso settembre.

LA ZONA ROSSA: ANTONIETTA

Via Lore è una strada stretta che per chilometri costeggia Lonigo, provincia di Vicenza, cuore della zona rossa. L’ultimo tombino che collegherebbe l’acquedotto pulito alla casa di Antonietta dista soltanto 200 metri. «Duecento maledetti metri per cui aspettiamo dal 2014», racconta esasperata.

L’anno prima il Consiglio nazionale delle Ricerche aveva trovato nel pozzo della cittadina più di mille nanogrammi per litro di Pfoa — uno dei composti più noti di Pfas — quando l’Iss fissa a 500 il limite tollerabile per l’acqua e a otto per il sangue. Le sostanze perfluoroalchiliche, infatti, possono causare problemi alla tiroide e al sistema riproduttivo, tumori ai reni e ai testicoli. «Il sindaco di allora decide di chiudere il pozzo e costruire cinque fontanelle pubbliche in attesa di cambiare fonte di approvvigionamento. In realtà, mesi dopo vengono messi filtri utili a ripulire l’acqua e veniamo invitati a bere di nuovo dal rubinetto», continua Antonietta.

Ma i cittadini non si fidano e acquistano per anni bancali di acqua in bottiglia. Nel frattempo l’Asl analizza nuovamente l’acqua del pozzo di una delle famiglie di via Lore e i risultati non si discostano di molto da quelli del Cnr. «Ci arriva una comunicazione in cui si vieta l’uso del pozzo e ci viene consigliato di prendere l’acqua alle fontanelle e di allacciarci all’acquedotto decontaminato pagando di tasca nostra. Lo avremmo fatto. Se non fosse che l’allacciamento è un lavoro pubblico da far fare obbligatoriamente dalla società idrica».

Una beffa che protrae l’attesa di Antonietta tra scartoffie amministrative e carte bollate. E che diventa dramma di fronte ai primi risultati dello screening sanitario di Yuri, suo figlio, che presenta un livello di Pfoa nel sangue di 522 nanogrammi. «Cinquecetoventidue», ripete Antonietta. Le cose non vanno meglio per lei, che nel 2019 scopre di superare il limite fissato dall’Iss di 40 volte con un possibile danno ai reni, e per la sorella, reduce da un tumore al seno, i cui livelli toccano i 1.090 nanogrammi.

Siamo nel 2021. Via Lore viene inserita finalmente nel piano degli allacciamenti 2022-2023, ma le sostanze perfluoroalchiliche nel sangue di Yuri continuano ad aumentare, nonostante il ragazzo beva solo acqua pulita e faccia una vita sana. Com’è possibile? «Era altamente probabile che ciò accadesse», dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace: «Non si possono lasciare migliaia di cittadini soli in una zona altamente inquinata da Pfas come il Veneto, pensando che il problema sia solo l’acqua potabile. A oggi non esiste un quadro chiaro sulla contaminazione dei prodotti di origine animale e vegetale provenienti dalle zone inquinate».

L’associazione ambientalista decide quindi di far analizzare gli ortaggi coltivati nell’orto di Antonietta, l’acqua del suo pozzo e il suo terreno. «I risultati dimostrano come la contaminazione ambientale sia diffusa e storica», spiega Sara Valsecchi, ricercatrice del Cnr secondo cui le famiglie sono esposte continuamente a Pfas. Dall’acqua con cui irrigano al cibo che coltivano, fino al suolo che calpestano. Ed è per questo motivo che a tremare sono anche gli abitanti della zona arancione.

LA ZONA ARANCIONE: ELISABETTA

Ripete fino all’ossessione quella cifra: ottanta euro, il costo di un esame del sangue che potrebbe salvarle la vita, ma che in Italia non è previsto nemmeno a pagamento. Elisabetta vive nella terra di mezzo, quella in cui l’acquedotto è relativamente pulito – motivo per cui il Piano straordinario della Regione non prevede screening sanitari per la popolazione – ma non lo è l’ambiente circostante.

«Vivo qui e mi nutro con i prodotti dell’orto da quando sono nata. Da sei anni irrigo i campi con l’acqua piovana e non uso più quella del pozzo dove è stato trovato un livello di Pfoa di 18 mila nanogrammi al litro. Eppure non ho accesso alla sanità». Un accesso dovuto di fronte a una certezza scientifica: le sostanze perfluoroalchiliche sono mobili e si bioaccumulano. Ogni animale carnivoro, uomo compreso, accumula Pfas nel corso della sua vita dall’aria, dall’acqua e dal cibo a sua volta contaminato in un girone infernale. E non può permettersi il “lusso” di un’esposizione ulteriore.

Ma da quando è esploso il caso Miteni nessuno sa con esattezza dove siano queste sostanze perché l’unico parametro preso in considerazione è quello dell’acqua potabile. E gli abitanti della zona arancione sono abbandonati a loro stessi.

La scorsa estate una tv tedesca — che indaga sull’inquinamento da Pfas nel mondo — ha sottoposto il figlio di Elisabetta a un’analisi del sangue da cui è emerso che i suoi valori sono uguali a quelli di alcuni coetanei della zona rossa. La contaminazione sarebbe avvenuta per allattamento. «Ho presentato subito questi dati alla Regione, che solo adesso ha reso pubblica una delibera del 30 dicembre scorso, la quale estende anche a noi la possibilità di fare le analisi, ma con una procedura talmente farraginosa che sarebbe più facile vincere all’Enalotto. Una burla dopo anni di lotte estenuanti».

Sarebbe stato diverso se il Piano d’emergenza avesse introdotto un limite ai Pfas anche per l’acqua irrigua. «Perché non è stato fatto? La risposta è semplice: avrebbe messo al tappeto l’economia di un’intera Regione prevalentemente agricola. Meglio tenerci “nascosti” in nome del mercato del radicchio trevigano». Elisabetta, intanto, continua a fare da sola. E il suo giardino è diventato un laboratorio dell’Università di Padova, che sta analizzando suolo, prodotti alimentari, erba.