È una storia politica scappata di mano la crociata della destra italiana contro le famiglie arcobaleno, il corpo delle persone transgender e in generale i diritti della comunità Lgbt. Per capirlo bisogna attraversare le piazze, entrare nei comuni e nelle scuole oppure appostarsi negli angoli del cortile del Transatlantico dove pochi sono convinti che questa lotta identitaria sia veramente qualcosa “degna” di un partito popolare. Ci sono momenti in cui la propaganda sbaglia mira: «Ci stiamo affidando a una narrazione alimentata dai fondamentalisti ma il Paese non ci segue», si sfoga una deputata leghista.
Corpi trans*
Da diversi anni, nel totale silenzio assenso, moltissime scuole hanno attivato strumenti per concedere agli studenti transgender il diritto di farsi chiamare con il loro nome d’elezione, cioè il nome che si sono scelti. La carriera alias è uno strumento che esiste dal 2003, inquadrato come un profilo burocratico, alternativo e temporaneo. Un nome scelto sostituisce, ad esempio sul libretto elettronico, il nome anagrafico, quello scritto nei documenti ufficiali e dato alla nascita in base al sesso biologico. Una pratica osteggiata dalle associazioni anti-Lgbt che da mesi entrano nelle stanze dei ministeri per discutere una strategia di contrasto: a fine dicembre l’incontro tra CitizenGo Italia con Paola Frassinetti, sottosegretaria al ministero dell’Istruzione. A inizio 2023 il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara apre le porte all’associazione Pro-Vita che gli consegna il suo dossier anti-Lgbt. Un documento, visionato da L’Espresso, che ricorda una lista di proscrizione: 93 pagine dal titolo “Progetti applicati nelle scuole italiane ispirati alla teoria gender” che raccolgono corsi di anti-bullismo, presentazione di libri, letture. Città, scuole, indirizzi. Infine il 18 marzo l’incontro tra Massimo Gandolfini, portavoce del Family Day e la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella «Ci siamo trovati in perfetto accordo sui principi fondamentali: difesa della vita, la famiglia costituzionalmente definita e la libertà educativa», riferisce Gandolfini.
Ma quanto ha aderenza questa battaglia tra le mura scolastiche? Zero. I dirigenti non seguono le direttive escludenti e continuano come se queste associazioni anti-Lgbt non esistessero. Sono 200 le scuole che consentono agli studenti trans di usare la carriera alias. «I nostri ragazzi sanno di non essere discriminati - ripete la dirigente scolastica del Liceo Marco Polo di Venezia, Maria Rosaria Cesari che ha ricevuto una lettera dai vertici locali di Fratelli d’Italia con una richiesta impressa su carta intestata di interrompere le iscrizioni - Sanno di trovare un clima sereno. Non devono fingere. Perché la scuola non fa altro che questo: includere».
Le famiglie arcobaleno
Un’indagine Istat, datata ormai 2005, stimò in Italia un numero vicino a 100 mila minori che vivevano con almeno un genitore omosessuale. Con molta probabilità, oggi il dato è di gran lunga superiore, anche alla luce di una maggiore consapevolezza riguardo alle famiglie arcobaleno e all’evoluzione delle tecniche di riproduzione. Le famiglie arcobaleno esistono da quarant’anni. Nessun lavoro scientifico che fa riferimento alla Devolpmental psychopathology (che lavora sui fattori di rischio precoci che possono ostacolare lo sviluppo di una buona genitorialità) ha indicato nell’orientamento sessuale un fattore a rischio. L’ipotesi che i bambini abbiano bisogno di una madre e di un padre non è supportata dalla ricerca. Madri e padri sono importanti per i bambini in quanto genitori non in quanto femmine e maschi.
Ma sulla richiesta di cittadinanza da parte delle famiglie arcobaleno, il tema che vorrebbe sovrastare il diritto alla genitorialità è costruito su tre parole: utero in affitto. È la questione che si butta in mezzo a inquinare il dibattito perché tutti abbiano qualcosa da dire. Si usa per dirottare la trama, imbrigliare i fatti. La maternità surrogata è già vietata in Italia (legge 40/2004). L’ipotesi di un reato universale è «un’abnormità che neanche esiste nel linguaggio giuridico», spiega Marco Pelissero, ordinario di Diritto penale dell’Università di Torino. L’omogenitorialità è un neologismo che comprende realtà familiari distinte: ricomposte in seguito a separazioni eterosessuali, donne lesbiche che hanno fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita, famiglie adottive o affidatarie, oppure coppie gay che hanno avuto un figlio all’estero con gestazione per altri. I sindaci che conoscono le loro città, gli asili, le scuole, gli ospedali le vedono. Platealmente, in sette si sono opposti al divieto del ministro dell’Interno di riconoscere questi bambini: Roberto Gualtieri a Roma, Beppe Sala a Milano, Gaetano Manfredi a Napoli, Stefano Lorusso a Torino, Matteo Lepore a Bologna, Dario Nardella a Firenze, Antonio Decaro a Bari. A destra molti lo fanno senza annunci. Con qualche eccezione, come Mario Conte, sindaco di Treviso, leghista: «Sono esigenze sacrosante. Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, perché qui si parla di figli, di persone».
La realtà è il luogo di un cortocircuito che brucia i fili saldi della destra tradizionale. Per capirlo bisogna alzare lo sguardo verso l’Europa che con una mozione: «invita il governo italiano a revocare immediatamente la sua decisione». Ha spaccato il Ppe: la delegazione italiana ha votato in difesa del governo, ma quella dei Paesi nordici e quella portoghese si sono schierate a difesa delle famiglie arcobaleno. A queste crepe si uniscono le parole della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa: «Piuttosto che all’orfanotrofio io un bambino a una coppia gay non ho difficoltà ad immaginarlo». Parole non casuali, fanno sapere fonti interne a Fratelli d’Italia, che puntano a rimodellare le posizioni della destra. Parole indigeste che disturbano anche Casapound che bolla La Russa come simbolo di «una maggioranza che al momento è un colabrodo sugli assalti culturali della sinistra».