Ciò che sappiamo della lotta di liberazione contro il nazifascismo spesso ci viene da chi vi ha combattuto e l’ha testimoniata in forma di romanzo. Da Fenoglio a Pavese, da Caproni a Calvino: così, nella filigrana dell’invenzione, si può leggere la realtà

Una pazzia che fa rinsavire. Una bugia che non mente. Come sapevano gli antichi, niente quanto un paradosso riesce a dare conto del potere illusionistico della letteratura – la sua ostinata capacità di portare i lettori a una comprensione più piena del mondo e della vita attraverso l’inganno e la finzione. Il paradosso, però, non suona mai altrettanto vero come quando la pagina scritta fa attrito con la grande Storia.

È il caso, per esempio, della nostra Resistenza. Gli italiani che sanno qualcosa della lotta partigiana (oltre a quanto racconta il loro manuale delle superiori) quasi sempre lo hanno appreso dai narratori che, dopo avervi combattuto, hanno trasfigurato quell’esperienza decisiva per iscritto.

C’è Beppe Fenoglio, anzitutto, con l’epica neovirgiliana del ciclo di Johnny e con il romanticissimo groviglio di amore e morte di “Una questione privata”; per non parlare de “I ventitré giorni della città di Alba” e della loro inconfondibile tonalità eroicomica, tanto più stupefacente in un autore come lui, che di quei mesi ha sempre serbato un culto quasi religioso. C’è Giorgio Caproni che, prima di sublimare i propri ricordi nei duelli scopici delle astrattissime composizioni della maturità (dove chi spara uccide sempre, circolarmente, sé stesso, un po’ come in una guerra civile), ci ha lasciato uno dei racconti più belli in assoluto, “Il labirinto”, in cui attorno all’epifania inattesa di una ragazza provvista di tutti gli attributi delle donne angelicate della tradizione lirica prende forma a poco a poco un viluppo di ricordi, sensi di colpa e tradimenti.

C’è Cesare Pavese per il quale, ne “La casa in collina”, la lotta partigiana è stata l’occasione di delineare una fisiopatologia del codardo dai tratti straordinariamente autobiografici (con vistose allusioni all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij). E c’è Italo Calvino: il più letto nelle scuole, forse il più amato, pure perché “Il sentiero dei nidi di ragno” conquista i lettori in età scolare con le avventure di un bambino alle prese con eventi di lui troppo più grandi.

Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Grazie alla qualità di queste opere (alle quali andrebbe aggiunta la migliore memorialistica letteraria, da Romano Bilenchi a Franco Fortini e Luigi Meneghello), più che la Resistenza degli storici, la Resistenza che oggi vive nell’immaginario degli italiani è quella dei narratori. Nulla di male in questo: a patto, però, di non sottovalutare lo statuto ambiguo di queste opere, sempre incerte tra affabulazione, sogno, testimonianza (compresi i memoriali). A patto, cioè, di non dimenticare il paradosso.

A volte, così, viene voglia di stanarli, questi grandi nostri romanzieri partigiani: stanarli, beninteso, per apprezzare meglio la determinazione con cui hanno lottato per non lasciarsi imprigionare nella cronaca spicciola dei reduci e dei testimoni, e attingere invece a una verità più alta. È quello che succede, per esempio, ne “La casa in collina”, dove le contraddizioni e i buchi nella cronologia servono a rappresentare dall’interno le contorsioni del protagonista per sottrarsi alle responsabilità della vita adulta e, confondendo i tempi, procurarsi un alibi.

Ma è il caso, soprattutto, di Fenoglio. Nessuno quanto lui, probabilmente, è riuscito a far capire ai lettori che cosa fosse la lotta partigiana. E, tuttavia, nessuno come lui ne “Il libro di Johnny” ha manipolato con tanta libertà i dati storici. Sbaglieremmo a prenderlo alla lettera, perché – per fare solo qualche esempio – non c’è stato nessun tentativo di occupare i palazzi del potere a Roma nei giorni dopo l’8 settembre 1943 da parte dei carristi fedeli a Badoglio, come nelle Langhe non ci sono stati commissari politici comunisti con i tratti dell’odioso Nemega nella primavera del ’44, mentre le relazioni tra partigiani azzurri (monarchici) e rossi (comunisti) non hanno mai toccato l’asprezza del romanzo (asprezza che rispecchia, piuttosto, le contrapposizioni degli anni Cinquanta, al culmine della guerra fredda). Qui, semplicemente, Fenoglio inventa: anche se in maniera così persuasiva che spesso è riuscito a ingannare persino gli specialisti.

Dobbiamo fargliene una colpa? Sicuramente no. Fenoglio e gli altri grandi narratori partigiani si sono solo incamminati per le regioni del Mito (o, più modestamente, del proprio mito personale): come è giusto che ogni scrittore degno di questo nome faccia in casi simili. La Resistenza – il senso della Resistenza, le sue passioni, le sue ragioni – è racchiusa nelle loro invenzioni come nessun dovizioso resoconto naturalistico fedele alla topografia e al calendario saprebbe mai fare.

Qui c’è invece l’entusiasmo, c’è la paura, persino la noia di quei giorni. Al cospetto di queste verità essenziali, inesattezza e forzature non contano. Tocca a noi, semmai, saper distinguere. Ricordando comunque l’insegnamento di John Ford ne “L’uomo che uccise Liberty Valance”: «Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda». A differenza degli storici, i narratori possono (e debbono) farlo.

Musica, teatro, cinema, letture, lezioni e laboratori per ragazzi: dal 23 al 25 aprile, il Comune di Roma festeggia la Liberazione con una grande Festa della Resistenza ideata da Gabriele Pedullà. Partecipano, tra gli altri: Marco Belpoliti, Ascanio Celestini, Marco Damilano, Fanny & Alexander, Gad Lerner, Giovanna Marini, Ezio Mauro, Michela Ponzani, Paolo Taviani, Benedetta Tobagi, Nadia Urbinati. Chiude il sindaco Roberto Gualtieri. Ingresso libero, programma sul sito www.culture.roma.