L’ufficio anti-discriminazioni di Palazzo Chigi ha una dote milionaria. Giorgia Meloni voleva eliminarlo. Il direttore Mattia Peradotto ha scelto il basso profilo. E intanto i centri anti-violenza chiudono

Fingersi morti mentre gli altri si sbranano, salva la vita. Lo si impara da piccoli guardando i documentari sugli opossum. Si spiega infatti con la tecnica della tanatosi l’immobilismo dell’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni interno al Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Un organismo nazionale istituito in attuazione di una Direttiva europea «autonomo e indipendente nello svolgimento del proprio mandato». Lavora da anni contro tutte le discriminazioni, incluse quelle omotransfobiche.

 

Da quando però è presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che nel 2017 chiese l’immediata chiusura tramite un’interrogazione parlamentare, lavora un po’ meno. O meglio lo fa solo a colpi di convegnistica, qualche conferenza, comunicati stampa. La tanatosi ha però l’effetto di una valanga su una moltitudine di progetti per l’inclusione e contro la discriminazione. In ballo c’è tutta la progettualità dedicata alle persone transgender messa in piedi nel 2013 con i fondi europei. E ancora altri fondi, per i prossimi sette anni, circa dieci milioni già approvati dalla Commissione Ue.

Infine, la strategia anti-discriminazione Lgbt. Incagliata per una mancata firma, quella dell’allora ministra Elena Bonetti al decreto attuativo. Intanto nelle città i centri antidiscriminazioni aperti nel 2020 grazie al dl Agosto (unico articolo sopravvissuto al ddl Zan e convertito in decreto-legge) chiudono. I bandi per le annualità successive non sono stati ancora pubblicati. Altri milioni di euro fermi. «L’Unar non combatterà questa battaglia con questo governo e questo è triste». Sospirano i tecnici dentro la presidenza del Consiglio dei ministri. Già, perché il punto è proprio questo: la paura delle reazioni.

 

È una questione di equilibri, di potere, di poltrone che come sempre rischiano di saltare se si disturba il manovratore. All’Unar oggi c’è Mattia Peradotto, ex FutureDem, ex tesoriere di Italia Viva, ex segretario particolare della ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti e fedelissimo del deputato Francesco Bonifazi, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Matteo Renzi segretario.

Felpato e schivo, Peradotto è cauto nelle interazioni con i giornalisti. A differenza dell’attuale ministra alle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, già portavoce del Family Day che a ogni intervista nega i diritti confezionandoli in parole fatte di seta e garbo: no alle famiglie arcobaleno, no alla lotta contro l’omotransfobia, no al riconoscimento dell’identità di genere per le persone transgender.

I due non si scontrano. Il primo sta fermo, la seconda avanza e fa come se l’Ufficio anti-discriminazioni e i suoi progetti non esistessero. Ma l’immobilismo non mantiene le cose come sono: le deteriora. Un esempio è la gestione dei fondi europei, affidata al ministero del Lavoro che garantisce alla Commissione Ue tutto il flusso di denaro e la rendicontazione finanziaria. Vengono erogati sulla base delle richieste dell’Unar che in questo stato di “morte apparente” rischia di farli perdere. La progettualità che punta a contrastare l’omotransfobia dura sette anni, era partita formalmente nel 2013, l’erogazione è iniziata nel 2016. Da impegnare restano ancora tre milioni di euro. Ma il cambio di governo è una strada che ha portato all’arresto. A rischio i progetti come campagne di comunicazione, digitalizzazione archivio storico della comunità arcobaleno italiana, indagine Istat su diversity management e discriminazioni sul lavoro, formazione per l’inserimento lavorativo e l’autoimprendorialità delle persone transgender. A giugno terminerà la possibilità di impegnare risorse e fino a dicembre si passerà alla rendicontazione, risultato: fondi persi e progetti cancellati.

 

Centri Lgbt a rischio

Istituiti nel 2020 grazie a un emendamento inserito nel decreto rilancio di agosto, i centri accolgono le persone Lgbt in condizioni di estrema vulnerabilità: buttate fuori casa dai propri parenti, licenziate, aggredite. Persone che hanno perso tutto per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere. Accolte da professionisti e volontari intraprendono un percorso di ripartenza scolastico o lavorativo. Esistevano anche prima. Ma erano solo tre in Italia. I fondi del decreto rilancio ne hanno permesso la diffusione nelle zone più remote d’Italia dove la violenza omotransfobica pesa di più e le possibilità di ribellarsi sono più deboli. L’Unar dovrebbe stilare un bando ogni anno, ma ad oggi l’unico bando pubblicato risulta quello del 2020. Alla direzione del dipartimento, in quell’anno, c’era Trianda Loukarelis che a L’Espresso racconta: «Avevamo previsto un bando che prevedeva due annualità. 2021 e 2022, per 8 milioni di euro (4+4). Avevamo chiesto la pubblicazione dell’avviso in un tempo in cui non era prevista la fine del governo Draghi, neanche si poteva pensare. Ma l’ok dalla ministra Bonetti non c’è mai stato». Una storia che si gioca su silenzi astiosi e sguardi biechi.

 

Intanto l’Europa ci guarda e di fronte al livello alto di omotransfobia nel Paese chiede di insistere per costruire una rete di servizi e centri per aiutare la comunità Lgbt in difficoltà. In arrivo dieci milioni sul tavolo per i prossimi sette anni. Con la vecchia progettualità ferma, le associazioni Lgbt pronte a chiudere i centri-antidiscriminazioni e non solo, chiedono a tutte le istituzioni «uno sforzo per non buttare alle ortiche il lavoro fatto in questi anni». Uno sforzo che contempli una reazione dell’Unar. Sarebbe quanto meno un segnale. La resa non sarebbe definitiva.