L’intervento

“Riformiamo la 194 nel segno dell’eguaglianza di genere e del principio di autodeterminazione”

di Mirella Parachini   22 maggio 2023

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Nel giorno in cui la legge sull'interruzione di gravidanza compie 45 anni scrive a L’Espresso Mirella Parachini, vice segretaria Associazione Luca Coscioni, ginecologa, storica attivista dei diritti delle donne

Bene ha fatto l’Espresso, nel numero del 14 maggio scorso, a riproporre nella sua copertina la famosa immagine della donna incinta crocefissa comparsa sul numero del 19 gennaio 1975 con il titolo “Aborto: Una tragedia italiana” che ne provocò, all’epoca, il sequestro per “vilipendio alla religione” e la denuncia del direttore di allora Livio Zanetti.

Ha voluto così riportare l’attenzione sulla legge 194 che legalizzò l’aborto volontario nel nostro paese per valutare “A che punto siamo” a 45 anni dalla sua approvazione.

Quasi sempre l’analisi dei dati sull’applicazione della legge porta a concludere che la maggior criticità nell’accesso all’aborto nel nostro paese sia rappresentata dall’obiezione di coscienza, poiché nel nostro Paese le percentuali di ginecologi obiettori sono altissime. Ma siamo proprio sicuri che sia così?

L’articolo 9, che prevede la possibilità, per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie, a non prendere parte agli interventi per l'interruzione della gravidanza, al tempo stesso chiarisce che “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare.. l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza” (il corsivo è mio). È la non applicazione di questa parte della normativa che rende possibile la mancanza di servizi, con enormi differenze tra le regioni, ben descritte nella ricerca “Mai dati” condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove nel 2021, che ha prodotto una mappa della situazione nel nostro paese, sulla base della richiesta di accesso civico generalizzato alle singole ASL e ai presidi ospedalieri.

Così come è la non applicazione dell’articolo 15 che rende ancora così stentata la diffusione della procedura farmacologica alternativa al metodo chirurgico, dal momento che dovrebbero essere “Le regioni, d'intesa con le università e con gli enti ospedalieri” a promuovere “l'aggiornamento del personale sanitario.. sull'uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza”. Inosservanza della legge che va ad affiancarsi alla pressoché totale mancanza di formazione nelle scuole di specializzazione, oltre che alla vera e propria impunità dei ginecologi quando, come in questo caso, non si attengano alle linee guida delle società scientifiche e delle agenzie internazionali più autorevoli.

Ma se, una volta effettuato il “tagliando”, si arrivasse a ritenere che alcune parti della legge andrebbero modificate, chi e come potrebbe proporlo?

Come dice la ginecologa Anna Pompili in un articolo di MicroMega dal titolo “Aborto: oltre la 194, la legge che vorremmo”, in Italia “la paura di possibili modifiche in senso peggiorativo ha bloccato qualunque ipotesi di cambiamento, tanto che, quando si parla di aborto, tutti, anche a destra, si affrettano a sottolineare che “la legge 194 non si tocca”.

Non così è avvenuto in Francia dove, dopo la legge Veil che ha legalizzato l’aborto nel 1975 e che aveva una validità di 5 anni, sono state approvate successivamente leggi che hanno permesso di ampliare e migliorare il quadro per l’assistenza all’aborto. Queste leggi garantiscono in particolare il sostegno dello Stato in questo processo, come si legge dal sito governativo. Dalla completa gratuità dell’aborto nel 1982, alla legge del 1993 che istituisce il reato di “intralcio all'interruzione volontaria di gravidanza” e rimuove la criminalizzazione dell'auto-aborto; dalla legge del 2001 estende il periodo legale da 12 settimane a 14 settimane di amenorrea e facilita le condizioni di accesso ai contraccettivi e all'aborto per le minorenni, alla legge del 4 agosto 2014, per una reale uguaglianza tra donne e uomini, che rimuove dalle condizioni per il ricorso all'aborto quella di “détresse” (pericolo, difficoltà) ed estende il reato di ostacolo all'aborto anche all'accesso all'informazione sull'aborto.

Nel 2016 la legge sulla modernizzazione del sistema sanitario autorizza le ostetriche ad effettuare aborti farmacologici e rimuove il periodo di riflessione di sette giorni.

Nel 2020, durante la pandemia del Covid-19, vengono messe in atto, con diversi decreti, misure eccezionali con lo scopo di limitare gli accessi delle donne nelle strutture sanitarie pur garantendo loro la continuità dell'accesso all'aborto.

Queste misure hanno permesso, da un lato, di estendere l’aborto farmacologico in ambito extraospedaliero da 7 a 9 settimane di amenorrea e, dall'altro, il ricorso alla telemedicina con la possibilità di consegnare i farmaci abortivi direttamente dalle farmacie comunali alle donne, misure confermate con successivi decreti nel 2021 e 2022. È del 2 marzo 2022 la legge che, per rafforzare il diritto all'aborto, apporta diverse modifiche che consentono un migliore accesso, quali: l’estensione del termine legale per l'aborto da 14 a 16 settimane di amenorrea, l’autorizzazione alle ostetriche di eseguire aborti strumentali nelle strutture sanitarie (sperimentazione in corso), la possibilità di effettuare l'aborto medico tramite teleconsulto e, infine, l’abolizione del periodo minimo legale di riflessione anche per le minori.

Il confronto con il nostro paese è decisamente scoraggiante: possiamo solo citare l’ordine del giorno a prima firma Stefania Ascari, del M5S, approvato alla Camera dei Deputati quasi all’unanimità (257 favorevoli, tre astenuti, nessun voto contrario) il 24 gennaio scorso, che impegna il governo "ad astenersi dall'intraprendere iniziative di carattere anche normativo volte ad eliminare o limitare il sistema di tutele garantito dalla legge n. 194 del 1978”.

L’ Associazione Luca Coscioni, con la Petizione in materia di Interruzione Volontaria di Gravidanza propone che il Parlamento valuti la possibilità di modifiche della legge 194, abbandonando per sempre il “dogma dell’immodificabilità”. È necessario prendere in considerazione non solo le misure volte a migliorarne l’applicazione (gli interventi per contrastare l’ostacolo della obiezione di coscienza potrebbero benissimo venire attuati da subito, con vari provvedimenti, dalle regioni ), ma anche quelle che derivano da condizioni che nel 1978 non erano state così diffusamente praticate, quali, per esempio, le varie metodiche di diagnosi prenatale. In effetti, nel caso degli aborti oltre il primo trimestre per gravi patologie fetali, i cosiddetti aborti “terapeutici”, attualmente le donne in gravidanza oltre la 22°-24° settimana sono costrette ad andare all’estero per interromperla poiché, in questa epoca di gravidanza, quando il feto ha la possibilità di vivere fuori dall'utero, l'interruzione può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna e, secondo l'art.7 della legge, il medico che esegue l'aborto è tenuto ad “adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.

Ma, e forse ancora più importante, è la necessità di una iniziativa di riforma della legge in senso più liberale e rispettoso della soggettività femminile, che permetta di riscrivere la regolazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, prendendo le mosse da un bilanciamento che incorpori finalmente sia l in una delle sue possibili declinazioni, riconoscendo il diritto della donna a non trovarsi sottoposta ad una gravidanza non voluta, in spregio alla sua libertà fisica e morale.

È questo lo spirito della petizione che abbiamo rivolto al Parlamento per chiedere di aggiornare la legge 194 /1978, alla luce del diritto alla salute delle donne e del diritto all’autodeterminazione.