Calcio
Aurelio De Laurentiis, il padre-padrone odiato e amato: il terzo scudetto del Napoli è suo
Divisivo e detestato per la vendita dei beniamini, il presidente della squadra partenopea è ora acclamato come l’uomo capace di riportare la città ai fasti di un tempo. Unico a rafforzarsi tra stelle tramontate. Tanto da perdonargli anche le battute blasfeme sulla pizza
L’hanno chiamata A16. La protesta che una parte dei tifosi del Napoli ha inscenato nell’estate del 2022 contro Aurelio De Laurentiis, il presidente reo di aver ceduto molti big, dall’idolo locale Lorenzo Insigne al giocatore più prolifico della storia degli azzurri, Dries Mertens, poi Kalidou Koulibaly, Fabian Ruiz, David Ospina. Lo accusavano di voler far cassa impoverendo di campioni la squadra. In vista di una possibile promozione in serie A del Bari, società di cui la famiglia De Laurentiis è proprietaria, gli chiedevano di scegliere e imboccare quel tratto di autostrada, la A16 appunto, che da Napoli porta al capoluogo pugliese.
Otto mesi dopo la A16 è tornata a essere solo un’autostrada e quel “Via de Laurentiis” rischia di diventare un’indicazione toponomastica. Gli intitoleranno una strada, una piazza o un palazzo dopo aver riportato sotto il Vesuvio il tricolore.
In quasi un secolo di vita non sono stati tanti i presidenti del Napoli. Un piccolo campo sportivo dell’area Est è ancora intitolato a Giorgio Ascarelli, l’industriale che nel 1926 fondò l’Associazione Calcio Napoli dal Foot-Ball Club Internazionale Naples. Un nome che in un sol colpo riuniva ciò che al regime fascista era indigesto, dai termini anglofoni al richiamo all’Internazionale comunista: Ascarelli non ci pensò due volte a dare alla compagine una denominazione più patriottica e politicamente conveniente. Tre anni dopo fece costruire un campo sportivo al Rione Luzzatti, venne inaugurato il 23 febbraio 1930 col nome di Vesuvio ma gli fu subito dedicato, dopo la morte ad appena 17 giorni dall’inaugurazione; a causa delle sue origini ebraiche però fu presto ribattezzato Stadio partenopeo.
Storie di nomi, dunque. Ma anche storie di presidenze vulcaniche, nel Sud che cerca l’uomo forte. Nel 1936 la società venne rilevata dall’armatore Achille Lauro, il Comandante, uomo potente e ricco. Tanto da poter spendere, nel Dopoguerra, 105 milioni di lire per l’acquisto di Hasse Jeppson. Una telefonata di Lauro all’allora presidente dell’Atalanta Daniele Turani fece arrivare a Napoli il fortissimo attaccante svedese. «Se io spendo cento milioni per uno che gioca a pallone mi faranno un monumento. Mi fanno re. Napoli è fatta così, la conosco», disse. Napoli è panem et circensem: ogni volta che il giocatore cadeva a terra il pubblico urlava, preoccupato, «è caduto ‘o Banco ‘e Napule!».
Storie nell’unica grande città d’Italia senza derby. Durante la presidenza Lauro il Napoli giocava al Collana, al Vomero, ma serviva un impianto più capiente: nel 1959 il terreno di gioco divenne lo Stadio del sole, dal 1963 San Paolo (destinato ancora a cambiare nome): sarà la cornice del Napoli più bello e vincente della storia.
Il Napoli di Corrado Ferlaino. L’ingegnere rilevò la società nel 1969, intervenendo a sanare una situazione di dissesto finanziario. Per la squadra andava letteralmente pazzo. Divennero fisse le sue fughe all’intervallo per la troppa tensione della gara. Nel 1984 venne a sapere che un tal Diego Armando Maradona era in rotta con il Barcellona e l’ultimo giorno utile per trascinarlo a Napoli andò a Milano, in Lega calcio, dove consegnò una busta. Vuota. Poi con un volo privato fuggì a Barcellona: «Feci firmare Maradona e in piena notte tornai in Lega. Dissi alla guardia giurata che avevo sbagliato una procedura, portai via la busta vuota e lasciai quella con il contratto».
Dopo le vittorie di scudetti e Coppa Uefa, negli anni ’90 il Napoli di Ferlaino precipitò: nel 1993 la società passò a Ellenio Gallo, nel 2000 metà azioni andarono a Giorgio Corbelli, nella primavera del 2002 il pacchetto passò a Salvatore Naldi. Furono gli anni del fallimento, dichiarato nell’agosto del 2004, e della retrocessione in serie C. Sprofondata la precedente proprietà, Luciano Gaucci provò a costituire la Napoli Sportiva.
In una situazione tellurica e scismatica, con la possibilità “avignonese” di due Napoli calcio, spuntò fuori De Laurentiis. Con la Napoli Soccer, subentrò alla SSC Napoli per poi riprenderne il titolo due anni dopo.
Romano ma con origini di Torre Annunziata, figlio di Luigi e nipote di Dino, fondatori del noto impero cinematografico. Carattere tosto ed esuberante, carismatico e fascinoso. Quando duetta con Vincenzo De Luca è l’unico in grado di tenere testa al governatore. Divisivo, verso di lui si passa dalle critiche per la gestione verticistica alle lodi per motivi simili: la società agile, a conduzione familiare, è tra le poche a vantarsi dei conti a posto. Per Massimiliano Gallo, il direttore del Napolista, «la vera napoletanità è quella di De Laurentiis. Essere napoletani è sinonimo di serietà, affidabilità, laboriosità». Questa estate lo volevano cacciare, ora può permettersi sfottò blasfemi: «La pizza a Napoli è una merda».
Adesso che è sulla bocca di tutti può dire ad alta voce che il Napoli è suo. Non degli allenatori che si sono alternati, né dei tanti campioni arrivati e partiti. Prima che all’esperienza di Luciano Spalletti, i gol di Victor Osimhen e le intuizioni del ds Cristiano Giuntoli, si devono alla sua guida. Gonzalo Higuain e Marek Hamsik sono andati, Maurizio Sarri e Carlo Ancelotti defenestrati. Solo lui si sente sempre meglio. Il cerchio di nomi, campi e presidenti si stringe: se i primi furono gli scudetti di Maradona, questo che sta arrivando è sicuramente suo. E dopo aver chiamato come il D10S lo stadio, può dire che il terzo tricolore viene nel nome di Aurelio.