Emergenza Territorio
L’Italia è un Paese di frane e alluvioni
La toponomastica racconta di acquitrini e territori franosi sui quali si continua a costruire. E a condonare gli abusi. Per questo siamo tra i primi al mondo per vittime e danni da dissesto idrogeologico
Il Paese delle frane e delle alluvioni? Accendi il navigatore e segui le indicazioni verso la toponomastica horror esibita su stradari e Google Maps con spregiudicatezza, le località Fosso o Fossa, Pantano, Bagnolo, Marana, Maranella, Stagni o Stagno, Fontanelle, Padule, Palude, Piscina, Laghetto, Fiumara, Acquapendente, Acquaviva, Acquafresca, Acquedolci, Acqua Traversa, Rio Fresco, Rio Secco, Rio Corto, Fonte, Fonteviva, Canale, Fossato, Riva, Isola, Rotta, Foce, Isola Persa, Morene, Campo, Catino, Mortizza, Macereto, Ghiaione, Breccia, Lama, Isola, Isolotto, Lagno, Gravina, Roggia, Gora, Naviglio, Anconella, Barena, Slavina, Calanca, Dirotta, Rovina, Smotta, Alluvione Cambiò, via del Diluvio, Contrada Piovega, Pozzallo, Pietratagliata, Trematerra, Maluventu, Campomorto, Infernetto, Punta Maledetta, Punta Malafede, via Affogalasino, Isola Sacra, via delle Idrovore, Bagno, Bagnoletto, Settebagni…Toponimi evocativi di esposizioni al rischio non più di aree vergini ma di parti di città e interi paesi, borghi, zone industriali, artigianali, commerciali, sportive e turistiche. Ricordano antichi acquitrini, isole fluviali, primordiali paludi, versanti franosi urbanizzati nella deregulation e accatastando edilizia graziata da quattro condoni.
Leonardo già ammoniva: «Se ti addiviene di trattare delle acque consulta prima l’esperienza e poi la ragione». Noi né l’una né l’altra. Gran parte delle trappole ce le siamo costruite dagli anni Cinquanta del Novecento. Fu allora che il meraviglioso paesaggio italiano diventò terra di conquista. Abbiamo triplicato, nel lampo di sette decenni, il costruito dei duemila e passa anni precedenti: dal 2,8 per cento del 1956 all’8,3 per cento di oggi. Cementificando anche gli argini dei fiumi appena esondati nelle peggiori alluvioni del novembre 1966, intombando 20 mila km di corsi d’acqua. E l’Italia naturale continua ad essere mangiata a grandi bocconi, da 150 mila a 244 mila ettari all’anno, mentre il Parlamento non riesce ad approvare una legge per fermare o frenare gli abusi, e ogni neonato ha in dote 135 metri quadrati di cemento.
Anche per questo siamo tra i primi al mondo per vittime e danni da dissesto idrogeologico, con il 20 per cento dell’Italia costruita con scarsissime difese sotto i colpi di impatti devastanti di un clima completamente cambiato, e un’orografia e morfologia della penisola molto rischiosa: su 302 mila km2 di superficie, 106 mila km2 sono montagne e 125 mila km2 colline, con 70 mila km2 di pianure peraltro alluvionali. Siamo una terra geologicamente giovane con rilievi argillosi e sabbiosi e facilmente erodibili dal record europeo di 301 miliardi di metri cubi di precipitazioni in media all’anno, e dallo scorrimento torrentizio di 7.644 corsi d’acqua di cui 1.200 fiumi.
L’Ispra censisce la cifra pazzesca di 628.808 frane attive dalle Alpi alle Madonie sul totale delle circa 750.000 frane dell’intera Europa. E sono 7.275 i Comuni, sul totale dei 7.904, con aree a pericolosità molto elevata con dentro soprattutto 8,1 milioni di italiani. Hanno insegnato poco o nulla le oltre 5.400 alluvioni e 11.000 le frane che ci hanno colpito negli ultimi 70 anni lasciando oltre 6.000 morti, migliaia di feriti, milioni di sfollati e danni in media per 4 miliardi all’anno dal Dopoguerra.
Scriveva Gabriel García Márquez che «Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada». E l’Italia delle catastrofi è anche un caso linguistico mondiale. Le nostre generazioni hanno sfornato una vagonata di definizioni per dire “frana”. Al british lanslide, opponiamo un intero vocabolario: crollo, fenomeno franoso, franamento, smottamento, scoscendimento, scivolamento, sprofondamento, sfaldamento, slittamento, colata, flusso, valanga, cedimento, rottura, caduta, tracollo, dissesto di versante, rovina, slavina, sfacelo, sfascio, schianto, rottura, frattura, distacco, cedimento, caduta, colamento, dilavamento....Non è un caso che la frana più estesa d’Italia, quella di Ancona datata 1982, si sia staccata dal pendio detto Ruina. O che sul Vajont, in dialetto “Va giù”, la frana assassina fu causata dal crollo non della diga ma del versante del Monte Toc che sta per “marcio” o “in bilico”. Che nel 1963 evacuarono la Craco costruita sui calanchi lucani che i Romani indicavano come Graculum, terreno fragile. Che nella frana della Val di Stava sia franata Pian della Pozza. Che a Volterra la località La Frana è raggiungibile da via della Frana.
E la parola alluvione? Flood per noi è piena, allagamento, inondazione, esondazione, rotta, straripamento, tracimazione, invasione d’acqua, rovescio, sommersione, fiumana, trabocco, sormonto, evento alluvionale, acqua a cascata, marea, mareggiata, nubifragio, tempesta d’acqua, acquazzone, valanga d’acqua, infinità d’acqua, evento meteoclimatico estremo, bomba d’acqua, catastrofe meteorologica, trabocco.
Insomma, anche un ripasso di toponomastica sarebbe utile a chi di noi continua ad affidare il destino al Santo Giovanni Nepomuceno martire e protettore da frane e alluvioni o al fatalismo per noi fatale che alla parola prevenzione ha fatto aggiungere abusivismo, condono, sanatoria. Serve una nuova “Italiasicura”, una permanente struttura operativa che da Palazzo Chigi riprenda il filo del Piano nazionale delle circa 11 mila opere e riapra i cantieri della più importante opera pubblica nazionale, e vada oltre le durate dei governi, sopra ogni bega politica.