In otto casi su dieci finiscono in un nulla di fatto. Ma le conseguenze economiche sono importanti, tra costi per i contenziosi ed esami inutili prescritti per ragioni “difensive”

Sono 300.000 le cause per colpa medica, 35.000 ogni anno le richieste di risarcimento per danno biologico (compreso il decesso). La maggior parte dei casi denunciati riguarda l’attività chirurgica (38,4%), gli errori diagnostici (20,7%), terapeutici (10,8%) e le infezioni ospedaliere (6,7%). Un fenomeno in costante crescita, eppure oltre l’80% delle cause finisce in un nulla di fatto, che però pesa sulle casse dei contribuenti 22,5 miliardi di euro l’anno, il 15% della spesa sanitaria annuale.

 

Una cifra che riflette la difficile situazione del sistema, tanto da condizionare l’attività assistenziale nella pratica della medicina difensiva. Si tratta di prestazioni in più che i camici bianchi erogano per timore di contenziosi, generando un incremento della spesa sanitaria pari a 10 miliardi di euro, lo 0,75% del Pil e il 10% del fondo sanitario nazionale, incidendo sui costi della sanità per l’11%.

 

Le liti
Un corto circuito del sistema al quale si è cercato di porre rimedio con la legge Gelli-Bianco del 2017. «La norma prevede – spiega l’avvocato Renzo Lancia – che il medico risponda del proprio operato all’azienda sanitaria di appartenenza e non al cittadino che invece dovrà ricorrere contro l’ente e non contro il professionista, a meno che non abbia stipulato un contratto con lui. L’onere della prova è a carico del cittadino che ritenendosi danneggiato dal medico deve portare una prova del presunto nesso causale tra il danno subito e la colpa del professionista. Infine, è esclusa la punibilità del medico che abbia rispettato le linee guida vigenti».

 

Va detto tuttavia che le linee guida non sempre sono aggiornate o esistono in relazione a tutte le patologie. Il medico rischia di trovarsi di fronte al bivio se scegliere di seguire le linee guida tutelandosi da eventuali atti giudiziari o adottare terapie più moderne, anche se ancora non previste.

 

«La legge non sembra aver segnato un deterrente alla litigiosità in materia sanitaria e, negli anni, la medicina difensiva è aumentata», osserva però Raffaele Gaudio, responsabile nazionale pronto soccorso della Fismu (Federazione italiana sindacale dei medici uniti). Una delle ragioni è culturale. «Un tempo la gente accettava più facilmente la morte. Oggi si hanno troppe aspettative dalla medicina che si è evoluta ma che non sempre può dare le risposte sperate».

 

E i pronto soccorso sono anche per questo la frontiera, osserva Gaudio: il luogo in cui convergono tutti i pazienti che il territorio non gestisce. Con tempi di attesa che si allungano, moltiplicando i ritardi per i casi più urgenti, che diventano poi materia di contenziosi giudiziari nella caccia alle responsabilità individuali. La situazione non cambia nei reparti ospedalieri, come medicina, sotto pressione per la mole di ricoveri impropri: pazienti che potrebbero essere curati a casa se l’assistenza domiciliare funzionasse a dovere o lungodegenti che avrebbero bisogno di un diverso trattamento. Solo nel 2022 si sono registrati 1 milione e 300 mila ricoveri impropri.

 

La rete
Occorrerebbero strutture adatte al tipo di paziente, personale e posti letto sufficienti alla domanda di salute. In Italia si contano 995 ospedali, il 51% sono pubblici, il resto privati. L’andamento dal 2016 al 2021 ha registrato una diminuzione di entrambe le categorie con un -0,9% degli ospedali pubblici e un -0,3 di quelli privati, mentre nuove strutture territoriali arrancano a realizzarsi.

 

Il 52,5% dei nosocomi è dotato di un dipartimento di emergenza-urgenza, il che vuol dire possibilità di coordinare tutti i servizi emergenziali di un ospedale in modo efficace, guadagnando tempo e riducendo il rischio di errori. Possibilità che l’altra metà delle strutture ospedaliere invece non ha. Così il 67,8% ha un centro di rianimazione, il restante 33% è costretto a trasferire il malato che si aggrava, in altra struttura attrezzata di rianimazione con i rischi che ne conseguono durante il trasporto. E c’è, infine, il dato relativo ai pronto soccorso, presente nel 79,3% delle strutture di ricovero italiane e nel 17% di quelle pediatriche.

 

I bisogni
I posti letto collegati al servizio emergenziale sono ancora pochi: 7.469 posti letto di terapia intensiva, 1.121 di terapia intensiva neonatale, 2.413 posti letto per unità coronarica e 1.638 posti per terapia semi-intensiva, su tutto il territorio nazionale. In generale in Italia ci sono 3,4 letti ogni 1.000 abitanti. Un numero ben al di sotto della media europea, pari a 5,3 posti per ogni 1.000 abitanti.

 

Per non parlare della carenza di medici che ancora non ha visto un turnover per coprire i vuoti lasciati da chi è andato in pensione, mentre regioni come la Puglia che ha un disavanzo di 450 milioni ha bloccato le assunzioni di personale. Dieci le regioni che hanno un deficit di bilancio, con conseguente difficoltà a investire. Mancati investimenti in posti letto e personale non fanno che facilitare i rischi per i pazienti e aumentare la litigiosità tra le parti che si fa sentire soprattutto nel Meridione.

 

La distribuzione geografica dei contenziosi coincide con gravi criticità di alcune zone, il 44,5% delle denunce arriva dal Sud e dalle isole. Un dato che fa il paio con quello degli investimenti in sanità ridotti negli ultimi 10 anni di 37 miliardi di euro, a cui ha contribuito per il 50% il blocco delle assunzioni, con condizioni lavorative insostenibili per molti medici in servizio e che a lungo andare optano per l’estero. E così i costi per la formazione del personale non trovano alcun ristoro nell’impiego. L’ennesimo conto sballato di un sistema in tilt.