La bomba in stazione
2 agosto, una strage fascista e piduista: la verità su Bologna che la destra rifiuta
Cinque terroristi di destra condannati per l’eccidio del 1980, depistato dai servizi deviati di Licio Gelli, ora indicato come mandante. Ma i camerati rilanciano le «piste estere» risultate false. I familiari delle vittime: «Vogliono coprire le complicità politiche»
Una strage fascista con il marchio di potere della P2. A differenza di troppe altre bombe nere, lo spaventoso eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna non è rimasto impunito. Dopo 43 anni di indagini e processi difficilissimi, ostacolati da continui depistaggi di eccezionale gravità, la strage di Bologna non va più classificata tra i tanti dolorosi misteri d'Italia. Grazie all'intelligenza e alla tenacia di alcuni magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria, avvocati di parte civile e familiari delle vittime, ora si conoscono i nomi di molti colpevoli.
Il più grave attentato terroristico nella storia della democrazia italiana (85 morti, oltre 200 feriti) è stato eseguito da una banda armata di terroristi neofascisti, con la copertura dei vertici piduisti dei servizi segreti militari e del loro criminale burattinaio Licio Gelli. Una verità accertata, documentata e comprovata da tutte le sentenze di questi anni, decise da decine di giudici diversi con giurie popolari allargate ai cittadini, che purtroppo vengono rifiutate e screditate ancora oggi da rumorose schiere di negazionisti, con appoggi anche nella destra istituzionale.
«I condannati per aver organizzato ed eseguito la strage sono tutti fascisti italiani», osserva il presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, Paolo Bolognesi: «Rilanciare oggi le false piste estere, smentite in tutte le sedi giudiziarie, serve a creare confusione, per nascondere ai cittadini quanto è emerso con prove chiare dagli ultimi processi: il ruolo del capo della P2 come mente organizzativa e finanziaria della strage, il pesante coinvolgimento di personaggi del Msi che hanno aiutato i terroristi di destra, la complicità degli ufficiali dei servizi segreti italiani che sapevano da prima dell'attentato, quando era ancora in preparazione, ma hanno continuato a proteggere i neofascisti, invece di fermarli».
Come esecutori della strage di Bologna sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi neofascisti: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Per primi sono stati identificati e arrestati (dopo mesi di latitanza e altri omicidi) i due capi e killer dei Nar, la coppia che guidava quella sanguinaria banda armata con base a Roma: Fioravanti e Mambro sono stati proclamati colpevoli già nel 1995 dalle Sezioni Unite della Cassazione, il massimo livello di autorevolezza della giustizia italiana.
Poi, in un processo separato, è stato condannato anche Ciavardini, giovanissimo terrorista di Terza Posizione, reclutato nei Nar a soli 17 anni per la strage alla stazione e per altri omicidi politici. Anche i giudici per i minorenni, con la condanna definitiva di Ciavardini come complice, hanno riconfermato la colpevolezza di Fioravanti e Mambro.
Nonostante queste incontestabili verità giudiziarie, i tre stragisti sono stati protetti e difesi per decenni con insistenti e ripetute campagne innocentiste, fondate su illazioni smentite dai processi e dossier rivelatisi falsi, che hanno disorientato l'opinione pubblica, diffamato i giudici migliori, umiliato e indignato i familiari delle vittime. Nell'inerzia di una parte della stessa magistratura, la Procura generale di Bologna negli ultimi anni ha riaperto le indagini sulla P2 e su altri terroristi neofascisti legati ai servizi deviati.
Nel gennaio 2020 è stato stato condannato all'ergastolo, in primo grado, un quarto terrorista di destra, Gilberto Cavallini, un killer nero che era anche l'armiere e tesoriere dei Nar. Cavallini ora attende la sentenza d'appello, prevista per il prossimo autunno. L'ultimo processo si è chiuso nell'aprile 2022 con la condanna in primo grado di Paolo Bellini, già camerata di Avanguardia nazionale e reo confesso dell'assassinio nel 1975 di uno studente di sinistra, poi diventato sicario della 'ndragheta e infiltrato in Cosa Nostra, in contatto con i boss delle stragi di mafia.
Tutti e cinque i condannati si proclamano innocenti. Ma di certo non possono dirsi perseguitati dalla giustizia italiana. A conti fatti, i quattro terroristi dei Nar hanno scontato in carcere molto meno della pena minima (24 anni di reclusione) che in teoria sarebbe imposta dal codice penale per un solo omicidio premeditato, in particolare l'ultimo che avevano commesso prima della strage di Bologna e che dopo l'arresto hanno finito per confessare tutti: l'assassinio del magistrato romano Mario Amato, che indagava sul terrorismo neofascista e in quei mesi di solitudine aveva scoperto i legami dei Nar con la criminalità organizzata, i servizi segreti e la P2.
Amato fu ucciso per strada da Cavallini il 25 giugno 1980, cinque settimane prima della strage, con la complicità di Ciavardini, che guidava la moto. Fioravanti e Mambro, dopo l'arresto, hanno confessato almeno otto omicidi, dichiarandosi innocenti solo per la strage di Bologna. In teoria avrebbero dovuto scontare un cumulo di ergastoli per un totale di almeno 93 delitti. Ma da tempo sono tornati tutti in libertà, approfittando dei benefici di giustizia garantiti (non solo agli imputati, ma anche anche ai condannati) dalle leggi della democrazia italiana dopo il crollo del fascismo.
L'unico in carcere oggi è Bellini: è stato riarrestato a fine giugno, perché secondo l'accusa progettava di uccidere l'ex moglie, che in corte d'assise ha deposto contro di lui, facendo crollare il suo alibi per la mattina della strage, e ora deve vivere sotto scorta. Intercettato a casa sua, dove era agli arresti domiciliari in attesa del processo d'appello, lui stesso diceva di aver già versato 50 mila euro per farla ammazzare. E aggiungeva di voler punire anche il figlio del giudice che ha scritto le motivazioni della sua condanna, di cui aveva spiato la residenza e il lavoro all'estero.
Le ultime indagini della Procura generale, sollecitate da nuove denunce e documenti scoperti dagli avvocati di parte civile, hanno fatto luce, per la prima volta, anche sui possibili mandanti e finanziatori della strage. Licio Gelli, il capo della Loggia P2, morto in libertà nel 2015 nella sua villa ad Arezzo, era già stato condannato in tutti i gradi di giudizio per i depistaggi successivi alla bomba del 2 agosto 1980. Con la stessa sentenza definitiva che ha inchiodato Fioravanti e Mambro, la Corte Suprema di Cassazione spiegava già allora che Gelli è stato l'organizzatore di una lunga serie di manovre per inquinare le inchieste contro la destra eversiva, accreditare false piste estere e coprire i terroristi neofascisti.
Trame gestite da Gelli anche personalmente, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, organizzato dai capi del servizio segreto militare, tutti affiliati alla P2: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fece ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri. Un arsenale collocato dagli stessi servizi deviati, come ha riconfermato la Cassazione, proprio per screditare le indagini sui neofascisti italiani e rilanciare le false «piste estere».
Nonostante le condanne definitive di Gelli e degli ufficiali piduisti dei servizi, diversi opinionisti, giornalisti e politici di destra hanno continuato in tutti questi anni a diffondere ipotesi alternative su «piste internazionali» di ogni tipo: palestinese, tedesca, francese, libanese, libica... Le nuove indagini della procura generale, invece, hanno dimostrato, tra l'altro, che la più celebrata pista estera, contro il terrorista rosso Carlos, fu in realtà «pre-confezionata» dai piduisti del Sismi ancora prima della strage di Bologna e fu poi rilanciata da politici e giornalisti di destra che venivano «pagati segretamente dai servizi deviati e dallo stesso Gelli». Eppure, ancora oggi, dal fronte politico negazionista c'è chi invoca addirittura una commissione parlamentare d'inchiesta sulle piste estere: le stesse ormai bollate come falsi storici in tutte le aule di giustizia.
Mentre la classe politica parla d'altro, con rare eccezioni, le nuove indagini sulla P2 hanno superato il primo esame giudiziario: l'ultima sentenza della corte d'assise, quella che ha condannato in primo grado Paolo Bellini, conferma anche la solidità e fondatezza delle prove raccolte dalla Procura generale per dimostrare che Gelli fu anche il mandante e finanziatore della strage. In sintesi, il capo della P2 si è esposto personalmente nei depistaggi perché era stato proprio lui, secondo l'accusa, a pagare i terroristi neofascisti.
Queste indagini recenti riguardano una parte della montagna di soldi sporchi accumulati da Licio Gelli con il crack del Banco Ambrosiano (che gli costò la prima condanna definitiva per bancarotta fraudolenta): almeno cinque milioni di dollari rubati alla banca di Roberto Calvi, che risultano distribuiti in contanti in Italia nei giorni cruciali della strage di Bologna.
La nuova istruttoria ha fatto emergere anche i conti esteri (mai dichiarati) della super-spia Federico Umberto D’Amato, storico capo dell'Ufficio affari riservati, eminente affiliato alla P2, morto nel 1996: anche lui veniva pagato da Gelli in Svizzera e il suo nome in codice è rimasto annotato nel suo documento-chiave, intitolato «Bologna». Le indagini degli ultimi anni, convalidate dalla prima sentenza, hanno svelato anche le manovre per far sparire gli atti giudiziari a carico del capo della P2, in particolare un suo manoscritto con il resoconto dei bonifici bancari che ora permettono di collegarlo alla strage del 2 agosto 1980. Le carte recuperate confermano anche i ricatti di Gelli alle istituzioni, attestati da una lettera «riservatissima» intestata al capo della polizia (ribattezzata «Documento Artigli»), che fu tenuta nascosta in un deposito clandestino del Viminale, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere del 1969, l'anno d'inizio del terrorismo politico in Italia.
I risultati delle nuove indagini, con tutte le prove raccolte contro i vertici della P2, sono stati raccontati da L'Espresso in tre inchieste pubblicate tra luglio e agosto 2020, quarant'anni dopo la strage, con il titolo: «Chi è Stato?».
Negli ultimi processi, come sottolineano i giudici nelle sentenze, sono emerse nuove prove molto pesanti che riconfermano anche la colpevolezza di Fioravanti e Mambro. A questo punto, cosa resta da scoprire? Quali pezzi di verità rimangono ancora nascosti? «Mancano le responsabilità politiche», risponde Paolo Bolognesi: «La loggia P2 era una potenza di fuoco nella politica, nei servizi segreti, nell'economia. È impensabile che un personaggio come Gelli abbia organizzato o quantomeno favorito la strategia stragista senza avere precisi referenti politici».
In questi giorni Bologna ricorda le vittime della strage con numerose iniziative. Il primo agosto, a Villa Torchi di Corticella, vengono commemorati i sette bambini uccisi dalla bomba. La sera della vigilia, in piazza Maggiore, viene proiettato un film in memoria delle 85 vittime, dove si immagina che fossero rimaste vive e avessero potuto terminare il viaggio.
Il 2 agosto alle 10, davanti alla stazione, si apre la commemorazione ufficiale, con un discorso di Paolo Bolognesi e un intervento del sindaco di Bologna. Alle 10.25, l'ora della strage, la città si ferma per un minuto di silenzio. Poi, tra molte altre iniziative, sono previsti due omaggi alle vittime della strage dell'Italicus, rimasta impunita: una visita alla lapide del ferroviere morto nell'attentato e la partenza di un treno speciale da Bologna per San Benedetto, dove nel 1976 esplose la bomba sul treno. La stessa galleria ferroviaria è stata poi bersaglio del terrorismo mafioso di Cosa Nostra, con la strage del rapido 904, il «treno di Natale» (23 dicembre 1984, 16 morti): tra i condannati spiccano il boss mafioso Pippo Calò e, come fornitore dell'esplosivo, un parlamentare del Msi, Massimo Abbatangelo.
Gli ultimi processi sulla strage di Bologna hanno alimentato anche nuove indagini giudiziarie, molto delicate, che sono tuttora in corso: tra Caltanissetta e Firenze diversi magistrati ipotizzano collegamenti tra neofascisti, terroristi neri e boss mafiosi condannati per le stragi del 1992-1993. Al centro di queste nuove accuse, che attendono ancora le prime conferme processuali, c'è anche Paolo Bellini, che è stato sicuramente un criminale al servizio di molti padroni, con fortissime protezioni in apparati statali. Da neofascista di Avanguardia nazionale, nel 1975 ha ammazzato uno studente di sinistra, Alceste Campanile, a Reggio Emilia. Poi è passato alla criminalità, con altri tentati omicidi e furti di mobili antichi e opere d’arte tra Emilia e Toscana. Negli anni ’90 è diventato un killer della ’ndrangheta emiliana, come lui stesso ha confessato dopo l’ultimo arresto, nel 1999, per un totale di undici omicidi.
Tra il 1991 e il 1992 si è infiltrato anche in Cosa Nostra, ufficialmente per aiutare un maresciallo dei carabinieri a recuperare opere d'arte rubate: in quella prima trattativa con la mafia, l'unica ammessa da tutti, fu proprio Bellini a suggerire ai boss la strategia terroristica di attacco ai monumenti, poi eseguita dai mafiosi siciliani e calabresi con le stragi del 1993, le più misteriose. Dopo aver confessato i suoi delitti con la 'ndragheta, Bellini aveva ottenuto lo status di collaboratore di giustizia. Ora revocato dopo la condanna in primo grado per la strage di Bologna.
All’epoca della bomba alla stazione, il neofascista Bellini era uno strano latitante: faceva il pilota d’aereo, a Foligno, spacciandosi per cittadino brasiliano, con il falso nome di Roberto da Silva, accreditato da un vero passaporto di copertura del regime militare. Ad aiutarlo e ospitarlo furono politici e militanti di destra, in particolare due parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi).
Inquisito già allora per la strage, in base alle testimonianze di due detenuti (che raccolsero le sue confidenze in carcere) e all’identikit di un «uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», il neofascista fu prosciolto grazie a un alibi sostenuto dalla famiglia, che lo collocava a Rimini. La nuova indagine ha però recuperato un video girato da un turista svizzero-tedesco: poco prima dell’eccidio, in stazione c’è davvero un uomo identico a Bellini. Al processo, la stessa ex moglie ha riconosciuto «con certezza» che era proprio lui, facendo crollare il vecchio alibi.
Bellini ha sempre negato, anche nell'ultimo processo, di avere mai avuto rapporti, incassato soldi o ricevuto appoggi e coperture dai servizi segreti. Ma i giudici, nella sentenza di Bologna, evidenziano una lunga serie di indizi contrari e gli contestano di aver nascosto legami innegabili con apparati statali. Nelle intercettazioni che lo hanno riportato in carcere per il progetto di eliminare l'ex moglie, lo stesso Bellini si lascia scappare uno sfogo inquietante, raccontando ai suoi familiari più stretti di essere vincolato al silenzio da «un giuramento» che risale a «quarant'anni fa».
I pezzi di verità che ancora mancano, sulla strage di Bologna, potrebbero dunque aiutare a chiarire anche i misteri della strategia di «terrorismo mafioso», fatta propria da Cosa Nostra con la catena di attentati del 1992-1993, mentre gli scandali di Tangentopoli facevano crollare il vecchio sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica.