Pubblicità
Attualità
gennaio, 2024

«Chi istiga ai disturbi alimentari, anche sui social, può finire in carcere»: la nuova legge allo studio del Parlamento

La legge sul fine vita che salta in Veneto, la riforma sull'Autonomia differenziata al Senato, l'Iran apre un nuovo fronte di guerra. Le notizie del giorno da conoscere

Multe e carcere a chi istiga ai disturbi alimentari
Giro di vite rispetto a chi istiga i giovani a comportamenti che possono indurre a gravi disturbi alimentari, come anoressia e bulimia. In commissione Sanità al Senato inizierà oggi l'esame di un disegno di legge di maggioranza che introduce pene severe, dalle multe fino al carcere. L'obiettivo è un contrasto deciso al fenomeno, che colpisce circa 3 milioni di persone solo in Italia. Al contempo, dopo il criticato taglio nell'ultima legge di Bilancio e mentre cresce la protesta del mondo delle associazioni, il ministero della Salute sta ora lavorando al reperimento dei fondi per il rifinanziamento del Fondo nazionale per il contrasto ai disturbi dell'alimentazione. Il ddl, comunicato alla presidenza lo scorso marzo, parte da una premessa allarmante legata ai numeri: si calcola che attualmente in Italia siano appunto 3.000.000 i soggetti affetti da questi disturbi, circa il 5% della popolazione, di cui il 96,4% donne. E ogni anno i disturbi alimentari provocano la morte di 4.000 giovani, collocandosi come seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, e dopo la pandemia si è registrato un aumento del 40% dei casi. Per arginare questa emergenza, il ddl punta alla prevenzione ma anche a colpire chi istiga i giovani.

Varie le novità: riconosce tali disturbi come malattie sociali e l'articolo 2 prevede che "chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, determina o rafforza l'altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a provocare o a rafforzare i disturbi del comportamento alimentare, e ne agevola l'esecuzione, è punito con la reclusione fino a due anni e la sanzione amministrativa da euro 20.000 a euro 60.000". Inoltre, se il reato è commesso nei confronti di una persona indifesa minorata o di ragazzi under 14, "si applica la pena della reclusione fino a quattro anni e la sanzione amministrativa da euro 40.000 a 150.000 euro". Previsti anche l'istituzione di una Giornata nazionale, il 15 marzo, ed un piano di interventi da parte del Ssn. 

Pugno duro anche rispetto al controllo delle reti sociali: il ministro dell'Interno stabilirà i criteri e le modalità per impedire l'accesso ai siti che diffondono tra i minori messaggi suscettibili di istigazione a condotte alimentari inidonee, reindirizzando in forma anonima l'utente automaticamente al portale digitale disturbialimentarionline.it. In attesa di una legge ad hoc, cresce intanto la protesta contro i tagli ai centri di cura. Per l'assessore alla Sanità dell'Emilia-Romagna, Raffaele Donini, tutto ciò è molto grave: «In queste ore - ha sottolineato - si coglie una disponibilità a ripristinare il Fondo nazionale per il contrasto dei disturbi alimentari e vogliamo che venga ripristinato per almeno 25 milioni di euro e non la metà come si ipotizza, per sostenere le politiche delle regioni per il contrasto a tali disturbi». Dal canto suo, il portavoce di FI Raffaele Nevi ha assicurato che il ministro Orazio Schillaci «è molto sensibile e attento a questo grave problema e siamo certi che individuerà una soluzione percorribile per trovare le risorse necessarie». E Italia Viva annuncia che presenterà un emendamento al decreto Milleproroghe per ripristinare la dotazione del Fondo «da 25 milioni di euro, somma di per sé già non sufficiente».

«Con una mano tagliano fondi, con l’altra inventano reati», commenta Rachele Scarpa, responsabile Giovanni e salute per il Partito Democratico «È grottesca e ipocrita la trovata della destra per compensare il taglio del Fondo Nazionale contro i disturbi alimentari e l’inerzia del Governo nell’emanare i decreti attuativi che inseriscano le prestazioni sociosanitarie legate ai DCA in un capitolo a parte dei LEA. La destra pretende di risolvere tutto con un panpenalismo senza criterio e, sempre e comunque, a costo zero: il grido disperato di pazienti, famiglie, studenti e associazioni invece ci spiega che servono risorse, personale specializzato, strutture apposite, educazione e prevenzione. Tutte cose che possono venire solo da un adeguamento dei LEA, che già dovrebbe essere legge, e con un atteggiamento che punti più a educare, che a punire. Altrimenti interverremo sempre ex post, quando sarà troppo tardi. Si concentrino sul trovare risorse per i decreti attuativi dei LEA e ci risparmi l’ennesima proposta di legge che usa il codice penale per dare risposte a problemi sociali», conclude Scarpa. 

 

Salta legge sul fine vita in Veneto. Spaccato il centrodestra
In Veneto non passa la legge sul suicidio medicalmente assistito per i malati terminali: finisce 25 a 25 la "conta" dei voti, con la spaccatura della maggioranza di centrodestra guidata da Luca Zaia. Ma è come se avessero vinto i contrari alla norma sul fine vita, portata in Consiglio dall'associazione Coscioni con 9mila firme. Perché Fratelli d'Italia e Forza Italia, grazie anche a una defezione nel Pd, hanno fatto valere il loro veto sulla legge per la quale si era speso in prima persona il governatore Zaia, annunciando il proprio sì, ma lasciando libertà di coscienza ai suoi, un plotone di 30 consiglieri, tra Lega di Salvini e Lista del presidente.

Determinanti sono state le 3 astensioni, due della Lista Zaia, e una del Pd, la consigliera Anna Maria Bigon. La loro partecipazione alle operazioni di voto ha portato però a 26 la quota necessaria per il passaggio con maggioranza assoluta dei presenti, che non è stata raggiunta. Il Veneto, in caso fosse passata la legge, sarebbe stata la prima Regione a dotarsi di una normativa in materia. La novità più rilevante - con la legge che ora torna in commissione - era quella di imporre un termine massimo di 27 giorni alle Asl nel dare una risposta ai malati con patologie irreversibili che chiedono alla sanità pubblica di accedere al trattamento per la morte volontaria.

Una possibilità, tuttavia, che resta intatta, perchè stabilita da una sentenza della Consulta del 2019, intervenuta proprio su un vuoto legislativo. «La legge non passa a parità di voti, 25 contro 25, e torna in commissione - ha osservato Zaia - Questa è la democrazia. Dopodiché domani mattina i pazienti terminali, alla luce della sentenza della Consulta, sanno che possono chiedere comunque l'accesso al fine vita. È la prova provata che questa proposta di iniziativa popolare non serviva ad autorizzare il fine vita, ma stabiliva i tempi per le risposte. Massimo rispetto per i consiglieri, ci mancherebbe soprattutto su un tema etico è fondamentale che tutti abbiano libertà di pensiero e di espressione. La mia parte politica ha lasciato totale libertà di pensiero e di espressione, penso lo si potrà evidenziare dalle votazioni».

Con quelli del Pd, del Movimento 5 Stelle, dei Verdi e degli altri gruppi di opposizione, il voto a favore era stato espresso anche da 11 consiglieri della Lista Zaia, più lo stesso governatore, oltre che da quattro della Lega. Ma che non ci fosse spazio di mediazione tra i gruppi della maggioranza, lo aveva fatto capire in mattinata l'intervento del capogruppo di Fdi, Daniele Polato. «Fratelli d'Italia dall'inizio ha dichiarato il proprio voto contrario - ha spiegato - Non siamo mai entrati nel tema specifico del provvedimento, ma dall'inizio siamo entrati nel tema della sua costituzionalità o meno. L'Avvocatura di Stato ne ha dichiarato i profili di illegittimità. Il Consiglio regionale viene chiamato a votare un provvedimento che già parte in origine con una dichiarazione dello Stato che dice "molto probabilmente faremo ricorso"».

Alla fine la capogruppo del Pd, Vanessa Camani, non si lascia sfuggire una stoccata al presidente che da 15 anni governa la Regione: «come Pd abbiamo sostenuto convintamente questa proposta. Emerge il dato politico che le parole e le indicazioni del presidente Zaia sono cadute nel vuoto da parte di oltre la metà della sua maggioranza: una spaccatura profonda che non può essere giustificata dalla libertà di coscienza». La capogruppo Dem guarda però con amarezza anche al suo interno: «Siamo molto dispiaciuti per il voto espresso dalla consigliera Bigon, alla quale abbiamo riconosciuto piena legittimità e libertà. Detto ciò, il rammarico sta nel fatto che la consigliera, pur consapevole che il suo voto avrebbe fatto da ago della bilancia, cosa che le è stata ricordata, non abbia optato per una scelta diversa, dimostrando così un atteggiamento non rispettoso e che acuisce le distanze all'interno del gruppo».

 

Autonomia in Aula, alta tensione al Senato e in piazza
Il ddl Calderoli sull'Autonomia differenziata arriva in Aula al Senato ed è subito scontro a Palazzo Madama e in piazza. Battaglia storica della Lega, presentato come pilastro del programma di governo, il provvedimento infiamma il dibattito politico, con le opposizioni che fanno fronte comune e promettono una battaglia senza sconti dentro e fuori i palazzi. Il Pd e i 5s in concomitanza con l'avvio dei lavori chiamano la piazza, con i Sindaci del Sud in testa.

Manifestazioni in una trentina di città in tutta la penisola, anche davanti alle prefetture al grido di "No alla legge Spacca Italia". Elly Schlein e Giuseppe Conte al Pantheon a Roma si passano il testimone con chi ribadisce: "No alle disuguaglianze, No alla frammentazione della Repubblica" come si legge nero su bianco su uno degli striscioni portati in piazza della Rotonda. Il centrodestra tira dritto verso il via libera definitivo, che vorrebbe si concretizzasse già in settimana, e respinge le quattro pregiudiziali presentate da Pd, M5s, Avs e Iv. Esito scontato. Ma a leggere la cronaca della giornata di ieri lo scontro sulle riforme non è solo quello tra maggioranza e opposizione. Anche all'interno dei partiti di governo la tensione sale mentre l'Autonomia differenziata si avvia a grandi passi verso l'approvazione definitiva e in commissione Affari costituzionali si stringono i tempi sul premierato. Le due riforme incrociano di nuovo in Senato i loro percorsi: la prima sostenuta dalla Lega, che vuole portare a casa maggiore Autonomia regionale; la seconda da Fratelli d'Italia che punta all'elezione diretta del premier. Le opposizioni su questa "staffetta" continuano a lanciare lo stesso "J'accuse" di "indecente baratto tra i due partiti". «Per ottenere l'elezione diretta del presidente del Consiglio, Meloni accetta di votare l'Autonomia differenziata della Lega che sfascia il Paese», accusa il capogruppo del Pd Francesco Boccia, gli fanno eco i 5s: «un disastro per la Sanità, una bomba che spaccherà il Paese».

Enrico Borghi capogruppo Iv parla di «un patto leonino, l'Autonomia differenziata deve procedere come pegno da pagarsi al partito del vicepremier Salvini». La preoccupazione di cristallizzare senza migliorare un'Italia che ha già due velocità serpeggia anche nel Centrodestra tanto che l'azzurro Maurizio Gasparri precisa «Forza Italia garantisce il Sud». La riforma andrà avanti e «i Lep e tutti i livelli di assistenza dovranno essere garantiti per evitare che ci siano Regioni di serie A e B». Per appianare gli attriti prima di arrivare in Aula è necessario un vertice di maggioranza con il ministro Calderoli, il padre di questa riforma, che alla fine benedice i due emendamenti di modifica FdI con i quali si chiede che che una volta che verrà approvato il provvedimento con i Livelli essenziali di prestazione (Lep), le risorse verranno aumentate anche per le altre Regioni che non hanno chiesto l'Autonomia. E ciò "al fine di scongiurare disparità di trattamento". Il ministro li «benedice» e chiosa «mi sembra che il trenino delle riforme stia andando». FdI con il presidente della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni commenta: «grazie a FdI il provvedimento è migliorato, questa riforma non viola la Costituzione la applica». Poi spiega: «Le nostre proposte mirano a stabilire un principio già partendo dall'articolo 1: ci deve essere la coesione nazionale e l'eliminazione delle differenze che purtroppo persistono tra Nord e Sud, centro e periferia. Ricordo ai critici di sinistra che la messa a punto di queste misure non è un fatto discrezionale che si è inventato il centrodestra ma un obbligo costituzionale previsto da 20 anni e che è rimasto inattuato».

 

L'Iran apre un altro fronte di guerra
L'Iran entra in azione. Non più solo attraverso la sua rete di combattenti sparsi per il Medio Oriente, dagli Hezbollah libanesi agli Houthi yemeniti che continuano a sparare alle navi di passaggio nel Mar Rosso scatenando la reazione degli Stati Uniti. Nella notte tra lunedì e martedì le forze aeree dei Guardiani della Rivoluzione hanno lanciato «missili balistici» sull'Iraq e la Siria: il primo raid per mandare un segnale al nemico Israele e al suo alleato Usa che «creano insicurezza nella regione», il secondo per «vendicare» il sanguinoso attentato di inizio gennaio a Kerman rivendicato dall'Isis. In uno scontro incrociato - e per il momento ancora indiretto -, l'esercito americano ha di nuovo colpito i ribelli filoiraniani in Yemen, mentre lo Stato ebraico ha lanciato il più massiccio attacco contro i miliziani del Partito di Dio nel sud del Libano. 

Nel colpire Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Teheran ha rivendicato di aver «distrutto uno dei principali quartier generali dello spionaggio del regime sionista (Mossad)». Secondo un comunicato dei Pasdaran, l'obiettivo era «il centro per lo sviluppo di operazioni di spionaggio e la pianificazione di azioni terroristiche nella regione e soprattutto nel nostro amato Paese». Le autorità locali hanno parlato di «almeno quattro civili» uccisi, tra cui il noto imprenditore dell'immobiliare Peshraw Dizayee e altri membri della sua famiglia.

Il premier del Kurdistan, Masrour Barzani, ha respinto come «completamente infondata» e «ingiustificata» la circostanza che nel mirino ci fosse una sede dei servizi di intelligence israeliani, sottolineando come gli attacchi iraniani abbiano colpito solo civili e abitazioni private, tra cui appunto quella dell'imprenditore. «Questi attacchi non devono rimanere senza risposta», ha tuonato da Davos. Il governo centrale di Baghdad ha reagito condannando «un'aggressione alla sua sovranità e al suo popolo», convocando l'ambasciatore iraniano in Iraq e richiamando il proprio da Teheran. L'Iraq ha annunciato anche «una denuncia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite» e una commissione d'inchiesta per dimostrare «all'opinione pubblica irachena e internazionale la falsità delle accuse dei responsabili di questi atti riprovevoli». L'attacco iraniano è stato condannato anche dagli Usa come «irresponsabile»: esplosioni sono state udite al momento dei raid anche vicino al consolato americano di Erbil senza conseguenze. 

 

Zelensky incalza Usa-Ue. Ma Putin insiste: «Non ci ritireremo mai»
Il 2024 «deve essere l'anno decisivo» per sconfiggere la Russia. Per questo, «dobbiamo ottenere una superiorità aerea» come abbiamo ottenuto quella nel Mar Nero: «Possiamo farlo, i partner sanno ciò di cui abbiamo bisogno e quali quantità». Volodymyr Zelensky prova a suonare la carica contro il «predatore Putin» al forum economico di Davos di fronte alla stanchezza della cavalleria occidentale alla vigilia del terzo anno di conflitto in Ucraina. E lo fa con un discorso che risponde indirettamente ai dubbi degli alleati sulla tenuta della resistenza di Kiev, criticando i tentennamenti occidentali sul sostegno militare nella guerra. Ma da Mosca arriva fulminea la replica dello zar: «È impossibile» che la Russia accetti di ritirarsi dai territori conquistati in Ucraina. E se il conflitto proseguirà, Kiev «potrebbe subire un colpo irreparabile», ha minacciato il leader russo dopo aver decretato il «fallimento completo e assoluto della cosiddetta controffensiva» ucraina, mentre l'iniziativa sul terreno è «totalmente nelle mani delle forze armate russe». Senza mezzi termini, il capo del Cremlino ha definito «imbecilli» gli ucraini per aver rinunciato a negoziare con Mosca la fine della guerra, sponsorizzando invece una formula di pace che prevede «condizioni proibitive» per la Russia, prima tra tutte il ripristino dei confini del 1991.

Ma l'Ucraina di Zelensky non vuole dialogare con un uomo che «incarna la guerra e di certo non cambierà». E non è disposta a rinunciare alla propria battaglia per liberare il Paese, neanche con la guerra in stallo al fronte. Perché Putin non si accontenterà di un conflitto congelato, che inevitabilmente «si riaccenderà», secondo Zelensky, che lancia così un monito ai partner: «Vi ricordo che dopo il 2014 c'è stato un tentativo di congelare la guerra in Donbass. C'erano garanti influenti, tra cui la cancelliera della Germania e il presidente francese. Ma Putin è un predatore non soddisfatto dai prodotti congelati».

Il presidente ucraino ha poi chiesto agli alleati più sanzioni alla Russia - compresa l'industria nucleare - e l'uso degli asset congelati di Mosca per sostenere la difesa di Kiev. «Ogni riduzione della pressione sull'aggressore aggiunge anni alla guerra», ha avvertito Zelensky che non ha risparmiato critiche ai suoi alleati per aver perso tempo nel dare aiuti a Kiev temendo di innescare un'escalation con Mosca. Nel frattempo, «la risposta di Putin alle richieste di pace sono state forniture di sempre più armi da Corea del Nord e Iran». Per il leader ucraino, la guerra potrà finire solo «con una pace giusta e stabile. E vogliamo che siate parte di questa pace», ha sottolineato ai leader al forum svizzero, ricordando la decisione di organizzare un summit per la pace a livello di leader proprio in territorio elvetico. Ma con i due schieramenti in guerra fermi sulle loro posizioni, non c'è spazio per la fine delle violenze e le armi restano la chiave per decidere le sorti della guerra.

Agli incontri a margine del forum svizzero, Zelensky ha ricevuto rassicurazioni dai partner che il sostegno arriverà. «Siamo determinati a mantenere il nostro sostegno all'Ucraina e lavoriamo molto strettamente con il Congresso» su questo, ha detto il segretario di Stato americano Antony Blinken dopo aver incontrato il presidente ucraino che ha sottolineato quanto sia «essenziale» il sostegno militare americano a difesa dell'Ucraina. «So che i nostri colleghi europei faranno lo stesso», ha assicurato il funzionario Usa. Ursula von der Leyen ha sottolineato l'obbligo per l'Ue di "continuare a sostenere la resistenza" ucraina, mentre anche il segretario Nato Jens Stoltenberg ha espresso "ottimismo" per il futuro dell'Ucraina. Ma, dichiarazioni a parte, resta lo stallo sui miliardi di aiuti promessi dagli americani e da Bruxelles per dare respiro alle forze di difesa di Kiev. Le prossime settimane saranno decisive per l'approvazione di questi fondi, che si giocano su partite di politica interna mentre l'Europa e gli Stati Uniti si affacciano alle elezioni. Sotto questo aspetto, di certo non è una buona notizia per Kiev la vittoria di Trump nei caucus in Iowa: il favorito alla nomination repubblicana per sfidare Biden da sempre si fa beffe di ulteriori aiuti a Kiev, giudicandoli uno spreco. Dando per scontata la vittoria della Russia di Putin sull'esercito - e le speranze - dell'Ucraina libera. 

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità