La storia
«Ho detto no al pizzo, ma lo Stato mi ha tolto tutto»: così Tiberio Bentivoglio è stato lasciato solo
Ha denunciato i clan, è stato ferito, non ha mollato: ha aspettato sei anni per gli aiuti. Ma ora il commerciante reggino teme di soccombere a Equitalia
Due figli e una sanitaria fornitissima, che va a gonfie vele e pur essendo in periferia è punto di riferimento in città. Una vita felice, tra famiglia e lavoro, a Reggio Calabria, dove con la moglie Enza ha piano piano costruito il suo piccolo sogno imprenditoriale. Una vita normale. Fino al 14 marzo ’92. Un mafioso, inviato del boss del quartiere, Santo Crucitti, lo avvicina e gli chiede il pizzo. Ma lui, Tiberio Bentivoglio, dice no e denuncia. È lì che cambia tutto, è lì che inizia il suo inferno. Da quel giorno, la sua attività che ha creato dal nulla diventa bersaglio della ’ndrangheta, in un crescendo di violenza: prima furti, poi un incendio al deposito, poi addirittura una bomba al locale. Tiberio ed Enza, però, non mollano, sanno di essere dalla parte giusta, degli onesti. Nel 2003 sono parte civile nei processi appena avviati. Un oltraggio che il clan non perdona, neppure a distanza di anni: arriva un altro incendio distruttivo e, nel 2011, una sparatoria, da cui Tiberio si salva per miracolo. Ferito alla gamba, ne porta ancora i segni addosso. Eppure non è questa la cosa peggiore.
«Sono passato da un nemico a un altro e il secondo è più tosto», dice amaramente. Riferendosi allo Stato. La Regione ha appena varato la legge “De Masi” – altro testimone di giustizia calabrese – che premia, nelle gare pubbliche, chi denuncia. «Giustissimo. Ma come si fa se ti è stato tolto tutto?», commenta lui. Vittima di mafia, ha diritto per legge agli aiuti economici, nel suo caso – con merce e lavoro letteralmente in fumo – ancora più urgenti. Dovrebbe riceverli in 4 mesi, gli arrivano dopo 6 anni. Nei quali deve tenere aperta la partita Iva e un’attività che non esiste più. «Mentre lo Stato latita, tu produci debiti», racconta. Coi fornitori, per l’affitto, con l’Inps. Non può versare i contributi dei dipendenti, che con dolore licenzia, e, senza Durc, non accede più agli appalti: ad esempio del carcere, che cerca seggioloni per i bimbi delle detenute.
Insolvente, all’improvviso irrompe anche l’allora Equitalia, ipotecandogli e mettendo all’asta la casa. «Da sei anni non ho neanche il conto corrente, bloccato dalla prefettura». Intanto cerca un locale altrove per ripartire, ma nessuno glielo affitta. «Hanno paura di chi denuncia, Reggio è una città immatura. Perché non stiamo accanto a chi soffre?», riflette tristemente. Alla fine chiede e ottiene, nel 2015, un immobile confiscato alle cosche. Ma deve pagare l’affitto, salato, al Comune: la legge sul riutilizzo sociale dei beni li destina – gratis – a cooperative sociali e associazioni. «Da 20 anni chiedo che la norma sia cambiata: perché non darli anche a testimoni di giustizia, vittime di mafia, di usura, del dovere? Ne abbiamo migliaia inutilizzati, nella sola Calabria 5.248».
Bentivoglio approda dunque sul «chilometro più bello d’Italia», in centro città. Con una raccolta fondi riapre il negozio. Ma batte solo cinque scontrini al giorno. «Già nel mio rione non comprava più nessuno, ero un “infame”, ho denunciato il boss, condannato in primo grado, l’autista, perfino il parroco. Denunciare è democrazia, perdere tutto per averlo fatto è tirannia, che fa più male della morte».
Di cosa ha più paura ora? «Di non riuscire a pagare i debiti. Ho 70 anni, non dormo per il rimorso di ciò che lascio ai miei figli. Un giorno uno di loro mi dirà: “Per aver mandato in galera due o tre persone abbiamo perso tutto?”. Non me l’hanno ancora detto, ma sono certo l’abbiano già pensato».