Tredici anni fa si è rifiutata di vendere il suo terreno ai cercatori d’oro che stanno rovinando le Ande. Per questo ha vinto il “Nobel per l’ecologia”. Ma la sua lotta non è ancora finita

Máxima Acuña è una donna minuta ma non fragile, tranquilla ma decisa. Ispira rispetto mentre, a bassa voce, avvolta in un rosso vestito tradizionale andino, spiega a politici e attivisti italiani che cosa significa lottare da sola contro una multinazionale mineraria, rifiutare che anche il proprio terreno, come tutta l’area che lo circonda, venga sacrificato alla ricerca dell’oro. 

 

Una ostinazione che ha fatto di questa campesina peruviana analfabeta un modello per gli ambientalisti di tutto il mondo, una stima consolidata nel 2016 dal Premio Goldman, considerato «il Nobel per l’ecologia». È a persone come lei che si riferiva Rachel Carson, matriarca dell’ambientalismo mondiale, quando all’inizio del famoso saggio “Primavera silenziosa” ringraziava coloro che «stanno oggi combattendo migliaia di piccole battaglie destinate a far trionfare il buon senso nel nostro adattamento al mondo che ci circonda».

 

Nei tempi morti del tour organizzato in occasione della partecipazione a “Gea”, tre giorni di studi di giustizia ecologica e sociale (di cui parla la rubrica “Facciamo Eco” a pagina 49), Acuña tira fuori da un sacchetto di plastica lana e ferri e lavora a maglia. Poi riprende la sua testimonianza: «L’azienda ha circondato la mia casa di filo spinato, ci controlla giorno e notte, io e la mia famiglia siamo stati malmenati, i nostri animali rubati o uccisi, i nostri raccolti distrutti. Ma non ci arrendiamo perché non combattiamo solo per noi: la Madre Terra è una sola per tutti». 

 

È dal 2011 che la donna si oppone alle mire di Minera Yanacocha, l’azienda che ha ottenuto dal governo peruviano la gestione della ricerca dell’oro nella regione di Cajamarca, a oltre 4.000 metri di altezza sulle Ande peruviane. Tra i proprietari della multinazionale ci sono l’americana Newmont Mining Corporation, colosso mondiale dell’estrazione dell’oro, e l’International Financial Corporation, l’istituzione della Banca Mondiale che sostiene gli investimenti privati nei Paesi in via di sviluppo. Il terreno di Acuña è uno dei sassolini che hanno fatto inceppare il progetto Conga, enorme miniera a cielo aperto che sacrificherebbe alla corsa all’oro (e poi anche al rame e al litio) un territorio comprendente quattro lagune da cui sgorgano cinque fiumi, essenziali per la vita dell’intera regione.

 

Quando la donna si è opposta alla vendita, l’azienda l’ha accusata di occupare un terreno non suo: quei 25 ettari lei li aveva comprati nel 1994, ma le ci sono voluti tre gradi di giudizio per dimostrarlo. Nel 2016, lo stesso anno dell’assegnazione del «Nobel per l’ecologia», il progetto Conga è stato ufficialmente sospeso, ma le traversìe della famiglia Acuña non sono finite. E paradossalmente il premio non l’ha aiutata: anzi, le pressioni dell’azienda su vicini e parenti sono aumentate. «Ora siamo proprio soli. E la mia lotta è dura perché devo difendermi tre volte, prima dall’impresa, poi dai miei parenti, poi dal mio popolo: l’impresa li ha minacciati, li ha comprati, li ha convinti a cedere». 

 

La sua famiglia però non ha ceduto mai: «I miei figli mi hanno sostenuto dal primo momento, senza dubbi, perché io gli ho sempre insegnato a vivere in maniera onesta. L’azienda ha cercato di diffamarmi, di allontanare da me i miei fratelli, mio marito. Non mi sono piegata, e non ci sono riusciti. Ma è stata dura per loro sentire l’azienda che mi accusava di mentire. E ancora di più quando i loro uomini sono entrati in casa e mi hanno picchiata sotto gli occhi dei miei – ed è stato duro per me vedere gli agenti che picchiavano i miei figli».

 

Questo la rende ancora più felice di aver trovato sostegno in Italia, dove è stata accolta da attivisti per la giustizia ambientale e sociale (la Rete dei numeri pari di Giuseppe De Marzo), da politici (l’Alleanza Verdi e Sinistra) e dalla Chiesa (il dicastero per lo Sviluppo umano integrale). «Mi ha fatto piacere vedere tante persone che vogliono difendere il pianeta, sapere che il Papa è davvero preoccupato per l’ambiente. Questo mi fa sentire meno sola». 

 

Da tutti sono venuti impegni di sostegno morale ed economico che si dovranno concretizzare al ritorno a casa: la Chiesa ha promesso l’appoggio del vescovo di Cajamarca, che aiuterà la famiglia a ricostruire una rete di sostegno nel territorio. Avs invece presenterà la sua storia in commissione Esteri e chiederà che il governo si impegni a sostenere pressioni internazionali contro un progetto così distruttivo per l’ambiente. 

 

«Quello che la Yanacocha sta facendo in Cajamarca, le aziende minerarie possono farlo anche altrove, soprattutto ai poveri, ai contadini analfabeti come noi», continua Acuña. «Per questo invito tutti a venire a trovarci, per vedere come viviamo mentre intorno a noi l’impresa taglia gli alberi, danneggia gli animali, sporca l’aria e inquina le cuencas, le nostre fonti di acqua pura».

 

Tra gli appuntamenti romani l’ha colpita particolarmente l’incontro con famiglie senza casa: «Non pensavo che in Italia, che a Roma potessero esserci persone che, come me, vengono sfrattate e devono combattere per non restare senza tetto. Per noi rinunciare alla nostra casa e trasferirci in città sarebbe un po’ morire: non sappiamo leggere né scrivere, quindi non possiamo trovare lavoro. In campagna invece abbiamo il nostro terreno e gli animali che ci danno da vivere, e l’acqua pura delle lagune, che non dobbiamo pagare come avviene in città». 

 

O almeno, questo era il passato: «Prima potevamo allevare gli animali nei campi, ora dobbiamo tenerli legati, altrimenti li rubano o li uccidono. Coltiviamo ancora, ma quando non guardiamo ci rubano il raccolto e distruggono quello che costruiamo. Non possiamo uscire o entrare liberamente né ricevere visite. È una situazione pesante, stiamo male, soprattutto psicologicamente. Ma io e i miei figli continueremo questa lotta: preferiamo morire per un colpo che ci dà l’azienda che morire perché ci mancano l’acqua o le risorse naturali».

 

Solo a queste parole Acuña si commuove, perché il pericolo non è retorica: alcuni suoi compagni di lotta hanno perso la vita durante le proteste ed è a loro che Acuña ha dedicato il Premio Goldman. Si calcola che ogni due giorni nel mondo venga ucciso un ambientalista. E il Goldman non è bastato a proteggere Berta Cáceres, l’attivista honduregna assassinata un anno dopo averlo vinto.

 

Erano cento i giovani attivisti venuti ad ascoltare Acuña alla scuola “Gea”, a Trevignano Romano: si sono impegnati a riunirsi una rete che firmi appelli alle autorità del Perù per bloccare le concessioni e impedire altri soprusi. Lei ha condiviso con loro la sua saggezza andina: «Noi campesinos sappiamo che il nostro futuro è la Madre Terra. Noi cresciamo in rapporto con lei, le parliamo, sentiamo che è un essere vivente e che ha i suoi diritti. Perché è grazie a lei che viviamo: se le aziende minerarie la uccidono, moriamo tutti». 

 

È un destino che riguarda anche chi si arrende, anche chi si lascia comprare: il figlio Andrea, che la accompagna nel tour italiano, conclude: «La fame viaggia lentamente ma arriva anche in città: puoi avere muchissimo dinero ma non lo puoi mangiare».